Là dove ora c’è una fiammante panchina della pro-Loco, ai piedi degli scalini che portano all’abitazione di Benedetta, ma che un tempo era conosciuta come l’ osteria di Luigione prima e di Jacone poi, c’era una volta un grosso trave che si prolungava con una tavola di legno fino ad unirsi agli scalini della casa di Palmetta.
In questo luogo di ritrovo convenivano ad una certa ora della tarda mattinata estiva alcuni personaggi della Ruscio agricola per scambiare quattro chiacchiere e godersi una pausa di fresco oltre a gustarsi un "quartucciu" di vino di Roccatamburro.
A noi ancora ragazzini piaceva ascoltare quei discorsi, quegli scambi di opinioni su futili motivi, alcune volte senza un fine preciso, pur tuttavia interessanti e appassionanti se rapportati a quel periodo, dove il cambiamento del tempo, un volo di uccelli, il passaggio degli animali dal pascolo o quello più raro di una vettura, creavano un’ atmosfera che sapeva di rustico ma originale per noi che venivamo a Ruscio per trascorrere le vacanze dai nonni.
Credo di far cosa gradita a qualcuno più in là cogli anni ma, lo spero, a coloro che hanno a cuore le tradizioni del nostro paese, di cui il nostro giornalino è custode, se rievoco alcuni brani di discorsi che si facevano "A lu travu de Luigione", fraseggi dialettali all’apparenza immaginati, ma per lo più veritieri.
La scena ve la lascio immaginare, gli attori li conoscete, il copione poteva cominciare così. "Statte fittu, Giggetto ‘co’ su cosu! da stamane che stai a batte su sa farge; nun vidi che la stai a consummà. Pare che divi fargià tutta la piana, oggi. Me sta a rentrronà lu cervellu!"
“Mo’, me vo’ fa’ capì che tiè puro lu cervellu, tu?”
“Zitti un po’ regà, che nun sento se tira lu ventu su le Cese. Me dia regulà pe ji a revurtà lu fienu a la Rimessa.
Va’, che porverone su la strada romana! Dev’esse la macchina de Capudeferro. Arrabbiala come corre. Fa le caluje!
Esso lu prete cò la somara bardata, è tuttu tiratu a lustru; c’avrà quarche battesimo a Recia o a lu Triu!"
Sta a scenne lu ministru da Montiliò cò lu calesse; signu che sò arrivati li Peroni?" Scine, esso sor Biagio.
(coro) Bongiorno, sor Biagio. Bella giornata oggi.
"E’ jita bene quest’anno pè lo granu; cominciamo a trebbia’?" (voce in disparte) Meno male, cucì dopo la cama se remagnano li ciciarelli co’ la sargiccia."
Ah, c’è pure sor Mario, co’ la sigaretta Eva e lu cappellu de paja de Firenze. È vistitu che pare un figurino.
"Ma che se strilla lu Cazziente? Ma bè, nun vidi che li munelli je stau a coje le mela lall’ara".
Essote Perelli (nonno Paolo) co’ la pippa; au da refà la revencita a briscola e tresette co’ Augusto e Alessandro insieme a Jacone".
Passa in quel mentre Leandro da Ferentillo con la mula e gli bigonzi pieni di pommodoretti e “figure” (fichi); alcuni comprano, altri assaggiano soltanto, mentre li munelli corrono ad avvertire le donne.
Più tardi, quando il sole comincia ad invadere la parete, parte dei presenti si accomoda intorno al tavolo da gioco per assistere alla sfida di carte dentro il locale, altri raccattano la giacchetta e si avviano verso casa per il pranzo. Il travo si vuota e restano nell’aria insieme al tintinnio delle campanelle degli armenti che rientrano nelle stalle dopo l’ “abbeverata”, gli sfottò dei giocatori di carte, le grida gioiose e spensierate dei munelli che rincorrono la palla sul prato antistante l’osteria, mentre il monotono e metodico martellare di Giggettone sulla falce ormai lucente ai raggi del sole si confonde con i ritocchi dell’orologio del campanile che ora batte le lunghe dodici e quarantacinque.
Osvaldo