L’evoluzione e il cambiamento della società nel corso degli anni ha mutato profondamente il nostro modo di vivere ma anche il nostro modo di lavorare, creando mestieri nuovi e facendone scomparire molti altri.
Ancor di più si è visto nei numerosi mestieri scomparsi legati al mondo rurale.
Uno di questi mestieri scomparsi è quello del "bifolco".
Attualmente questa parola è considerata, al pari di villano e cafone, un insulto.
In realtà questo mestiere, nelle comunità più grandi della Tuscia, fu tenuto nei secoli passati in grande considerazione e onore. Infatti esisteva la "Corporazione dell’Arte dei Bifolchi" con propria Chiesa, Confraternita e Ospedale. Nei piccoli centri non ebbero così grande importanza ma rivestirono sempre cariche pubbliche di rilievo.
Per essere bifolco o "biforco" occorreva, per lo meno, possedere una "vetta", la coppia di buoi o più comunemente un bue e una vacca, di razza maremmana, con il mantello bianco sfumato di grigio, con corna immense, "addomati", cioè abituati, a trascinare la "barrozza" e a rimanere sotto il peso del giogo. I buoi erano tori castrati. Si ricorreva a questa pratica, quando erano ancora giovenchi, per renderli più docili e mansueti e più adatti al lavoro di traino.
Quasi tutti i bifolchi però possedevano due vacche e un bove. Le vacche si alternavano al lavoro perché i proprietari facevano rispettare turni di riposo a quella gravida mettendo all’opera quella "soda".
Queste bestie, comunque, meritavano sempre le migliori attenzioni da parte dei bifolchi i quali mettevano a loro disposizione i foraggi migliori e in razioni generose. La giornata lavorativa iniziava molto presto in quanto si dovevano trovare sul posto di lavoro, a volte distante diversi chilometri, dal paese, alle prime luci dell’alba.
Il bifolco si metteva in spalla le "verte" (una bisaccia di tela di canapa con due tasche) con dentro, da una parte, un "culetto" di pane, un po’ di fichi secchi, un "pénnolo" (grappolo d’uva) o un "portogallo" (arancia) e una bottiglia di vino; dall’altra tasca un po’ di biada per le bestie.
Se invece la giornata lavorativa era meno lunga si portavano la "catana" (allora i famosi tascapani di Tolfa si chiamavano così) dalla quale spuntava il manico del "roncio" e il collo della bottiglia di "ammezzato" (vino allungato con acqua). Indossavano una giacca di fustagno con sopra, se era freddo, la "cappottina" (una specie di giaccone) e si coprivano i pantaloni di "pelle di diavolo" a "cica" (alla cavallerizza) con i "guardiamacchia" o cosciali di pelle di capra. Calzavano scarponi chiodati rifiniti dagli immancabili gambali. Il cappello a falde larghe, di color nero o marrone o grigio, completava questa specie di divisa.
In tasca, però, avevano sempre lo "spadino", un coltello a serramanico con una lama molto lunga, affilatissimo e appuntito. Serviva per molte cose ma soprattutto per liberare velocemente la vetta in caso di ribaltamento della barrozza per non lasciar morire strozzate le vacche.
La mattina tiravano fuori le vacche o i buoi dalla stalla e li "aggiogavano". Mettevano, cioè, il collo delle bestie sotto il giogo e le legavano con la "pajara".
Queste bestie avevano sempre dei nomi strani e fantasiosi, per lo più vezzeggiativi, mio padre mi raccontava sempre che loro ne avevano una, tra le altre, chiamata Damigella perché nella stalla occupava il posto di due bestie, probabilmente per stare comoda.
Il vero regno dei bifolchi non erano i campi ma la macchia e così fu fino ai primi anni dopo la seconda guerra mondiale. In questo periodo furono immessi sul mercato italiano, a prezzo stracciato, i residuati bellici americani. Le imprese boschive si dotarono quindi, dei famosi "gipponi" G.M.C. e Taunus della Ford, a tre assi con cabina telata o chiusa e a trazione integrale.
E fu così che man mano i bifolchi furono in parte estromessi da questo tipo di lavoro. Poi vennero i trattori, prima cingolati e poi gommati togliendo ai bifolchi anche quel piccolo spazio rimastogli.
Allora dovettero definitivamente cambiare tipo di lavoro: alcuni si inurbarono, altri si trasformarono in trattoristi, altri ancora si ridussero al allevare vacche da latte