Le sartine di Ruscio

By proruscio

Metti una giornata estiva a Ruscio e una serena chiacchierata

Per dire che una donna non valeva granché si diceva: non sa tenere l’ ago in mano e oggi sarebbero moltissime le donne che «non valgono», secondo questo metro di giudizio che vorrebbe signore e signorine di ogni età «all’ opre femminili intente», per dirla come Leopardi.

Le bambine imparavano l’ arte del cucire sin dall’ età scolare e venivano cresciute senza grilli per la testa.

Tutto ruotava attorno alla macchina da cucire, prima a manovella, poi a pedale, lustra e ben oleata, decorata con fregi e svolazzi, ricordo quella di mamma sempre lì, pronta all’uso.

Era un totem casalingo, simbolo di un’Italia attenta al risparmio, non ancora consumista, che rivoltava i cappotti e le giacche, un’ Italia appena uscita dal mondo contadino e dalla guerra.

Il mestiere di sartina – mai nessun mestiere è stato più in nero, senza protezione legislativa, senza limiti d’orario – era molto apprezzato poiché presentava caratteristiche che risultavano perfettamente compatibili con la funzione di moglie e madre e soprattutto di casalinga in cui le donne venivano confinate. Un lavoro da fare, magari fino a notte fonda, fra le quattro mura domestiche e che aiutava a quadrare il bilancio: l’ago e la pezzola mantien la famigliola.

E in questo quadro si rispecchiano perfettamente tutte le donne del Ruscio di allora, mia mamma per prima, e come lei la sorella, zia Lucia.

Una semplice chiacchierata estiva con lei si è trasformata in un racconto che mi ha trasportato in un Ruscio così in contrasto con l’aria amena e vacanziera cui siamo abituati.

Lo scenario è l’immediato dopoguerra, tempo difficile per tutti non meno di quanto lo sia stata la guerra stessa. E’ il tempo di ricominciare, di riprendersi la propria vita e ritirare su la famiglia ed è per questo che nonno Arcangelo, rimasto vedovo di nonna, Rita Arpini, inizio guerra, si trova costretto a spedire due delle sue figlie a Roma presso parenti per ‘impararle a un mestiere’ ed alleggerire un po’ il carico famigliare.

Zia Lucia  è ospite di zia Zelinda, camiciaia ad Anguillara, e da lei a soli undici anni impara a fare le prime asole a mano.

A diciassette anni si trasferisce a Roma da zia Albina e nello stesso palazzo conosce Maddalena, ex insegnante di taglio, che le insegna a ricavare e produrre modelli affinando e completando il mestiere.

Nello stesso tempo trova lavoro come sartina presso un laboratorio di sartoria a via Cordatte dove non tarda a farsi riconoscere per la sua precisione e qualità lavorativa.

A questo punto succede qualcosa che potrebbe diventare favola per la semplice ragazza di un paesino di montagna.

Zoe Fontana visitò il laboratorio cercando operaie valide per fronteggiare l’enorme lavoro dell’atelier che ormai aveva raggiunto una fama notevole anche all’estero, e la titolare indicò proprio zia ritenendo fosse quella più qualificata, quella che non le avrebbe fatto fare brutta figura. Sapeva tenere più che bene un ago in mano.

Un sogno, sarebbe potuto essere un sogno, avrebbe avuto indipendenza economica, avrebbe conosciuto la mondanità di quegli anni, avrebbe potuto cucire per Audrey Hepburn o la principessa Grace di Monaco.

Invece…
All’epoca ‘una ragazza non poteva decidere autonomamente come oggi’ e  chiesto il permesso dovette subire un NO secco da zia Albina che la riportò con i piedi a terra.
Tornò al paesello nell’estate del ’53 dove continuò con il suo lavoro di sartina in casa cucendo per i paesani ed insegnando alle bambine di Ruscio e collaborando con mia mamma, sommersa anche lei di lavoro di cucito.

Chissà, in un altro contesto avrebbero potuto diventare le sorelle Vannozzi.