Essere fuori sede è una condizione nota a molti dei nostri giovani compaesani; una condizione che, nel periodo della pandemia, ha visto esacerbare tutte le difficoltà e le malinconie che di solito la accompagnano.
Ma che vuol dire? Chi di noi si è chiesto come stessero gli studenti o i lavoratori fuori sede durante il primo duro e lungo lock down?
Fuori sede vuol dire essenzialmente lontano da casa.
I nostri giovani vanno lontano da casa prima per studiare e poi molto spesso, purtroppo, per lavorare.
Un termine ricco di significato emotivo. Solitamente si diventa fuori sede per gradi. Prima vivendo un lungo e freddo pendolarismo alla volta della scuola superiore, poi facendo le valigie e trasferendosi in una grande città della penisola, molto spesso a Perugia o nella Capitale.
Terminata la scuola media, si parte ogni mattina molto presto alla volta di Cascia, Norcia o Spoleto. E a questo punto non posso non condividere con i lettori dei nostalgici spaccati di vita adolescenziale. I meno giovani ricordano i viaggi lenti e interminabili fatti sull’autobus di Marco Fanti, insieme alla moglie e alla figlia, anch’essa avvezza sin dalla nascita a lunghe “andate e ritorno” Poggiodomo/Cascia. Ricorderanno anche le prime lettere dell’alfabeto imparate da Cassandra, la piccola bambina di Marco e Meridiana, famigliarmente nota come Mery; poi i suoi ripassi ad alta voce di storia e geografia durante tutto il tragitto, che spesse volte ci impedivano di dormire o di ascoltare la migliore musica pop delle cassette; la sculacciata il primo giorno di ingresso nell’autobus (segno di un nonnismo in piccola scala); la serranda di Palmira e Pietrino che si alzava regalandoci un riparo dal freddo; la vergogna che si provava entrando in classe più tardi a causa della neve e la stanchezza di prima mattina che in pochi potevano conoscere, così come l’ora di viaggio appena affrontata. Chi di noi poi non conserva il ricordo del grande carattere di Mery? Quando fu lei a sostituire il marito alla guida dell’autobus, i viaggi divennero più lunghi (e a volte meno confortevoli.. se ripenso ai sedili in plastica e, nelle giornate di maltempo, alle catene per la neve sempre in funzione anche sull’asfalto pulito!!!!.. chilometri e chilometri di “vibrazioni total body”), ma potevamo vantare un’autista donna venuta dalle più impervie montagne, sempre elegantemente vestita, raffinata, femminile.
E allora i disagi che molte volte rappresentavano motivo discriminatorio.. pian piano diventavano motivo di orgoglio. Sentirsi chiamare Heidi faceva sorridere, e non più arrossire.
Il sentimento di disorientamento che questi piccoli centri di provincia provocano, per chi viene da un piccolo borgo di montagna (vera!!!), è quasi nullo in confronto a quello che si prova quando si fanno le valigie e si fa l’ingresso in una casa diversa dalla tua e con gente sconosciuta. Se si è fortunati si ottiene una camera singola, altrimenti condividi pranzi, cene, il bagno ed anche il sonno con una/uno o più sconosciuti. Persone che forse non diventeranno mai tue amiche, ma che saranno dei compagni di vita. Hanno storie a te estranee, a volte le inventano per sembrare migliori e marcare le differenze; percepisci il loro dialetto, e tu in quel momento pensi di parlare la lingua più corretta di tutta la penisola, fino a che ti trovi a dover ricercare nella tua testa il giusto termine italiano al posto di quello che hai sempre usato in paese, perché qualcuno non capisce quello che vuoi dire!
Anche i mobili, le finestre, le suppellettili sembrano parlare una lingua diversa, non ti appartengono, neanche nell’odore. Arrivano i turni di pulizia dell’appartamento, qualcuno non li rispetta, così come ti sottrae del cibo dal tuo scompartimento nel frigo.
Lunghi e interminabili viaggi su treni e autobus ti riportano a casa ogni week end; trascini (nel vero senso della parola) pesanti valigie di panni da lavare; torni con provviste di brodi, carne, sughi preparati e congelati magistralmente dalle mamme, verso Gennaio magari anche con una piega di salsicce. Rifiuti inviti a pranzo o a cena per non buttare il prezioso cibo che hai messo a scongelare. Se sei fortunato, ti trovi fuori sede quando il cellulare diventa uno strumento di facile disponibilità; altrimenti utilizzi il telefono fisso della casa, con parsimonia però: le interurbane costano e la maggior parte degli studenti non naviga nell’oro. Il sostentamento dipende da quante banconote riesci a risparmiare e a tenere nel portafogli o nascoste in qualche angolo dell’anta dell’armadio che ti appartiene di diritto; l’avvento della carta PostePay ovvierà a parte dei problemi di liquidità grazie alle ricariche a distanza.
Per fortuna la vita comincia a scorrere e a piacerti anche nella nuova casa e nella nuova città. Se non gradisci la compagnia dei tuoi coinquilini, fai la conoscenza di compagni di matricola o di vicini di casa. Il paracadute dei primi tempi di assestamento possono essere le cene a casa di vecchi emigrati dal tuo paese; ti ospitano, ti danno dritte su come muoverti in città, puoi contare su di loro, ma arriva il momento in cui quel fastidioso sentimento di compassione può lasciare spazio alla possibilità e alla certezza di farcela da soli.
Si rimane in città anche nel week end, si torna meno frequentemente a casa (scopri le lavanderie a gettone); realizzi con sorpresa che stai percorrendo fino in fondo la tua via, nel rispetto dei tuoi sogni, dei sacrifici dei genitori e dell’orgoglio dei parenti.
Se sei fortunato ti laurei e torni a lavorare nel tuo paese, che può chiamarsi ‘Ruscio’ o in mille altri modi. Altrimenti diventi un fuorisede saldamente legato alle origini.
Che tu sia stato fuorisede prima o dopo l’anno 2000 poco cambia; che tu sia stato fuorisede nel periodo della pandemia tutto cambia invece.
È diverso svegliarsi di notte perché fuori piove forte e pensare alla tua casa in paese e a quella tegola rotta, e svegliarsi di notte in preda alla paura che la tua famiglia possa ammalarsi senza poterla rivedere, poiché non hai un motivo di comprovata necessità per spostarti. Eppure l’unica necessità, impellente, di quel periodo era proprio TORNARE FRA LE MURA DI CASA.
Tante famiglie e tanti fuorisede, studenti o lavoratori, hanno sperimentato l’impossibilità di ricongiungersi. Eppure in tanti drammatici momenti, pensiamo al terremoto, eravamo abituati a ritrovarci tutti insieme e ad affrontare coralmente le paure.
Tuttavia, nonostante il terrorismo comunicativo mediatico, le fake news, i proclami dell’ultimo momento, è stata proprio la tecnologia a venirci in aiuto, ed il ricongiungimento è stato virtuale, su skype o su whatsapp.La lontananza dai luoghi natii ci ha fatto toccare con mano il disagio e la sofferenza di chi comincia una nuova vita lontano da casa, e allo stesso tempo ci ha restituito un autentico e profondo sentimento di attaccamento verso la terra d’origine. La condizione di fuorisede vissuta in tempo di pandemia da tanti nostri compaesani ha fatto riscoprire il significato della parola casa, che per tanti di noi coincide con ‘RUSCIO’. È solo abbandonando la casa e rompendo il legame viscerale che ci lega ad essa, che si può tornare ed apprezzarne il vero ruolo che svolge nelle nostre vite.
In bocca al lupo a tutti i nostri giovani fuorisede, perché attraversino il mondo partendo da casa, e vi facciano poi ritorno con rinnovati amore e cura!