Credo di interpretare il sentimento di molti amici di Ruscio nel sostenere che questa pandemia, avendoci tolto la possibilità di andare al nostro paesello per trascorrere qualche momento in serenità lontano dai quotidiani problemi della vita cittadina, ha accresciuto in tutti il desiderio di tornarci.
La distanza e la proibizione rendono ancora più cocente il desiderio e non ci consolano troppo le parole del poeta Cristoforo Zagaglia:
“Er paese più bello che ce sia,
dar quale sto lontano e nun ce vivo,
perché tutto è più bello e più giulivo,
visto co’ l’occhj … de la fantasia.
Quer che me disse un mago nù lo scordo:
“Da quello che più ami stài lontano
si vòi che sia durevole l’accordo”.
Cos’ha questo paesino di poche case, racchiuse in una vallata attraversata da torrenti poveri di acqua e circondato da montagne dove vivono pochi abitanti che sono rimasti dopo un esodo continuo di tanti compaesani, dove c’è carenza di strutture primarie necessarie per una vita dignitosa?
Si certo le radici, qui sono nati i nostri nonni e i nostri genitori, qualcuno di noi c’è anche nato ma poi è stato costretto a contribuire all’esodo in cerca di lavoro. Ma allora se questo paese è stato tanto avaro di prospettive di vita perchè è così al centro dei desideri di tanti di noi?
Il poeta ci dice che stando lontano da un posto la fantasia ci impedisce di cogliere la realtà e lascia libero il pensiero di volare e ci fa sognare.
Io credo che ci sia qualcosa di più profondo della fantasia che ci lega al nostro paese.
Forse un altro poeta, Giorgio Caproni, ci da’ la chiave per interpretare questo nostro sentimento lui che è voluto rimanere mentre gli altri sono andati:
”Chi sia stato il primo, non
è certo. Lo seguì un secondo. Un terzo.
Poi, uno dopo l’altro, tutti han preso la stessa via.
Ora non c’è più nessuno.
La mia
casa è la sola
abitata.
Son vecchio
Che cosa mi trattengo a fare,
quassù, dove tra breve forse
nemmeno ci sarò più io
a farmi compagnia?
Meglio – lo so – è ch’io bada
prima che me ne vada anch’io.
Eppure, non mi risolvo. Resto.
Mi lega l’erba. Il bosco.
Il fiume. Anche se il fiume è appena
un rumore ed un fresco
dietro le foglie.
La sera
siedo su questo sasso, e aspetto.
Aspetto non so che cosa, ma aspetto.
Il sonno. La morte direi, se anch’essa
da un pezzo – già non se ne fosse andata
da questi luoghi.
Aspetto
e ascolto.
(L’acqua,
da quanti milioni d’anni, l’acqua,
ha questo suo stesso suono
sulle sue pietre?)
Mi sento
perso nel tempo.
Fuori
del tempo, forse.
Ma sono
con me stesso. Non voglio
lasciare me stesso uscire
da me stesso come,
dal sotterraneo
il grillotalpa in cerca
d’altro buio.
Il trifoglio
della città è troppo
fitto. Io son già cieco.
Ma qui vedo. Parlo.
Qui dialogo. Io
qui mi rispondo e ho il mio
interlocutore. Non voglio
murarlo nel silenzio sordo
d’un frastuono senz’ombra
d’anima. Di parole
senza più anima.”
Quanta verità in queste parole! Quanta profondità di sentimenti e di contrasti che mettono in evidenza la necessità di uscire “dal sotterraneo” della città dove “il trifoglio è troppo fitto” e ti rende cieco e che ti chiude “nel silenzio sordo d’un frastuono senz’ombra d’anima”.
A Ruscio sulla parete dell’asilo è stata infissa una memoria che riporta le parole di Cesare Pavese: “Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti.” Una frase bellissima che si tinge di una maggiore profondità e di calore e la rende più incisiva se gli affianchiamo a mò di risposta, le parole di Giorgio Caproni:
“Se non dovessi tornare,
sappiate che non sono mai
partito.
Il mio viaggiare
È stato tutto un restare
qua, dove non fui mai.”