Ci sono tanti ricordi della nostra fanciullezza che sembrano dissolversi nei meandri della nostra memoria come i sogni di primo mattino, ma poi all’improvviso per una qualsiasi suggestione risalgono vivi e riaffiorano in tutta la loro nitidezza e traboccano come quelle nebbie di fine Agosto e primi di Settembre, che salgono su compatte dalla valle del Corno e sembrano traboccare dalla Rua e dalla forchetta di Usigni per riversarsi sull’angusta valletta, dove scorre il Tissino.
E questo fenomeno è ben visibile da Mucciafora, il paese ad oltre mille metri nel comune di Poggiodomo, che si affaccia con un panorama unico su di essa. Una festa ancora capace di evocare ricordi dai nitidi contorni è proprio quella di san Felice a Monteleone, che si piazza sempre intorno alla metà di Luglio. È stata a lungo la fiera del bestiame più importante del territorio montano fino a qualche anno fa, ormai ridotta a poco più che a piccolo “rigagnolo”, come in questa torrida estate, fatto di esposizioni di vestiti, scarpe e qualche prodotto caseario. Stanno venendo sempre meno le frazioni con tutto il contorno silvo-agricolo-pastorale e di conseguenza anche certe manifestazioni si ridimensionano, nonostante la buona volontà di alcuni, come Federica Agabiti, che tentano di dare nuova vitalità alle cose di una volta.
Scusate questa digressione, ma era necessaria.
C’era, dunque, a Monteleone di Spoleto una fiera di metà Luglio, chiamata Fiera di San Felice, che riguardava soprattutto il bestiame, minuto come pecore e capre, ma anche di grande taglio come le mucche bianche, asini e cavalli.
C’erano i “fieraioli”, pastori ritornati dalle maremme romane, cavallari, contadini, che già di buon mattino si mettevano in movimento per giungere a tempo alla fiera. Venivano dalla lontana Mucciafora, ancora senza strada carrozzabile, da Roccatamburo, Poggiodomo, Usigni, ma anche da Caso e Gavelli, oltre che dalle frazioni del capoluogo. Si mettevano in movimento insieme, per cui sembravano delle vere carovane di bestie e di uomini.
Mattatore unico era “Trippetta”, svettante nella sua corporatura, cappello da buttari, giacca di velluto scuro, bastoncino di orniello sempre in movimento. Era un ottimo “giocoliere”, sensale preparato, buon affabulatore da portarti dove voleva lui, a comprare o a vendere, ad accontentarti e qualche volta ad appiopparti una fregatura, ma sempre con il saper “faire”. Con tono amicale, diceva a mio padre: “Fidati, Ugo! Questa è la somaretta che fa per te!” Sollevava il labbro superiore per scoprirne i possenti denti e confermava:” È un affare! È giovane, è mansa!”. E così fu. La bestiola veniva spesso portata a capezza da mia madre ed anche da mio fratello o da me per andare a prendere il latte negli stazzi, per riportare la legna per l’inverno, con la “carriola” per prelevare le gregne di grano dai piccoli fazzoletti di terreno e trasferirle “nell’ara”, dove simmetricamente venivano costruiti i barconi in attesa dell’arrivo della trebbia, con i “bicunzi scarcarelli” per caricare l’uva dalle vigne sotto al paese e per ogni urgenza, come portare il grano al mulino e prenderne poi la farina e la semola. Passo lento, ma costante, abituata a tanta fatica e come ricompensa un manciata di biada.
Per l’occasione si acquistavano i famosi scarponi, o con le bollette sotto o con i carrarmati in gomma per il prossimo inverno, e il cappello di paglia per l’estate.
La fiera era, poi, l’occasione ghiotta per farci riportare una incartata di “perella di san Felice”. Non avevamo frutta, se non qualche “schianciu” (mele selvatiche). Attendevamo con ansia il ritorno a tarda sera dei nostri genitori, i fierari, per il regalo più ambito di allora. Erano piccole, dure, verdognole, un po’ asprigne, forse perché ancora non ben mature, che si mangiavano in un paio di bocconi, non buttando via nulla, nemmeno il torsolo con i semi. Come erano buone le “perella” di san Felice! Ultimamente ho notato che si è tornati a farle “rivivere” come abbellimento di dolci. Una tradizione da non perdere.
Questa era la fiera che io ricordo e che non si cancella dai ricordi della mia fanciullezza, anni cinquanta.