“L’anello di Grace” ecco come è nato il documentario sulla biga

By proruscio

Era un tipico pomeriggio di novembre, pioveva ed era buio. Mi trovavo in ufficio e la luce calda della abat-jour sulla scrivania, puntando direttamente su dei documenti a cui stavo lavorando, mi dava l’impressione di potermi concentrare meglio: non era così. Il suono dello scroscio che veniva da fuori la finestra catturò tutta la mia già labile attenzione.

Quando piove copiosamente ho l’insensata abitudine di interrompere ogni mia azione per andare a osservare l’intensità della pioggia. Decisi quindi che mi sarei preso una pausa: a ripensarci fu una pausa lunga oltre due anni. Da piccolo ero solito trascorrere tutta l’estate tra Ruscio e Monteleone; ricordo giornate interminabili passate con gli amici a scorrazzare e ad andare in bicicletta tra le vie e i campi di quei luoghi magnifici.

 

Dario Prosperini 

Capitava che intento a giocare chissà dove, venissi colto da tuoni e fulmini: nonno in carrozza era arrivato! Correre nella direzione della casa più vicina era la priorità, non importava di chi fosse, i temporali da quelle parti incutono un certo timore ai bambini. Ricordo che da dietro il vetro appannato monitoravo ansiosamente se la tempesta fosse passata, troppa era la voglia di tornare a giocare. Chissà se in quel piovoso pomeriggio di novembre di tanti anni dopo, fu questo il nesso che mi portò a pensare alla Biga.

Quello del “Carro d’oro” è da sempre un tema che mi ha suscitato un grande interesse; chissà, sarà per il fatto che veramente credevo si trattasse di un carro tutto d’oro o forse perché già i miei nonni, Franco Vannozzi e Maria Peroni, ne parlavano con grande enfasi. Prendendo spunto da una cartolina esposta al bar di Biscotto che ritrae la “nostra biga” in bella vista al Metropolitan Museum, iniziavano a descriverne l’eccezionalità e la bellezza.

Fu poi il turno di mia madre Antonella Vannozzi e di mio padre Claudio Prosperini: loro mi raccontarono invece quanta ingiustizia si annidasse in quella vicenda. Ero un bambino e in quel momento appresi il significato del verbo “trafugare”.

Da anni mi occupo di video-inchieste per il Corriere della Sera, il giornale dove lavoro. Nell’epoca della multimedialità reputo scontata l’importanza della narrazione a immagini; penso che essa debba essere alternativa e non sostitutiva di quella scritta. Talvolta capita che un messaggio veicolato attraverso un video diventi molto più impattante rispetto al suo alter ego scritto, ma dipende da tanti fattori. Altre volte accade il contrario. Ma andando oltre gli algoritmi e le valutazioni tecniche, ci sono delle storie che non puoi fare a meno di raccontare che mostrando la bellezza degli oggetti protagonisti di quei racconti. È esattamente ciò che accadde nel 2019 quando decisi di affrontare la storia della Biga etrusca di Monteleone di Spoleto attraverso un documentario: “L’anello di Grace”.

 

 Grace…

 

All’epoca il titolo ancora non esisteva, ad esso ci arrivai grazie ad un dono inaspettato che mi cadde letteralmente tra le braccia. Mi resi subito conto che c’erano degli oggettivi vantaggi nel conoscere molto bene questo argomento; decisamente più difficile fu cercare di trattare il tema come se Monteleone, Ruscio e il Trivio fossero solo dei puntini su una mappa, come se lì, per me, non ci fosse mai stato alcun temporale da cui mettersi al riparo. Per quanto concerneva la documentazione necessaria alla sceneggiatura, ero in possesso di libri sacri come “La Biga rapita” di Mario La Feria o come il “Volume 46/2011” del Metropolitan Museum Journal; soprattutto ero uno dei pochi fortunati ad avere il libro “La Biga di Monteleone di Spoleto”, il capolavoro di Luigi Carbonetti contenente tutti i documenti delle indagini dell’epoca, riportati in vita grazie alle ricerche di Tito Sereni. Fino all’uscita di questo volume, tutte le informazioni sui fatti relativi all’esportazione della Biga, erano lacunose e basate prettamente sulla tradizione orale. Prima di leggere i rapporti dei Carabinieri o le note dei funzionari del Ministero della Pubblica Istruzione (non esisteva ancora il Ministero della Cultura), non avrei mai pensato che 120 anni fa potesse esserci una tale precisione e puntualità nello svolgimento di un’indagine. Scorrendo queste pagine, lo stupore lasciava posto allo sdegno; insopportabile per me era constatare tutta la superficialità e i depistaggi di cui si resero responsabili alcuni personaggi, tra cui anche uomini dello Stato (pochi ma molto organizzati).

La mappa temporale che emergeva dal libro di Carbonetti ricostruiva molti passaggi che la Biga fece dal giorno del suo ritrovamento (l’8 febbraio 1902) fino a quello in cui riapparve magicamente a New York alla fine del 1903. Gli indizi si susseguivano uno dopo l’altro e mi lasciavano sempre più esterrefatto.

Tuttavia, il punto di osservazione da cui stavo guardando era parziale. Poiché le uniche informazioni arrivate fino a noi si basavano sui documenti pubblici delle indagini, esse avevano un limite oggettivo e invalicabile: non riuscivano a dimostrare fino in fondo l’esistenza di un link diretto tra trafficanti e acquirenti. Come nella trama di un film noir, c’era un cadavere ricoperto di sangue, c’erano dei testimoni che indicavano un unico colpevole il quale veniva quindi arrestato; ma alla prova dei fatti mancava l’arma del delitto

È tempo di bilanci per l’Asilo di Ruscio dopo la grande opera di ristrutturazione terminata lo scorso 8 marzo 2022, con il pagamento, da parte della Regione, del saldo lavori. 

L’interpretazione delle voci di spesa e di finanziamento non ci parla però soltanto di contabilità.

I numeri infatti ci possono raccontare molto del reale valore del nostro Asilo: se interpretati bene possono essere tutt’altro che freddi. 

Analizzeremo in particolare le principali voci di spesa, le fonti di finanziamento e soprattutto la ricaduta a livello territoriale delle spese effettuate in riferimento al progetto “UN TETTO PER LA COMUNITA’”, finanziato mediante accesso agli aiuti comunitari del Piano di Sviluppo Rurale dell’Umbria.

Le spese complessive dell’opera sono state pari a 190 mila euro, così ripartite: 

Come ben si evince dalla tabella, le spese sono state finanziate per circa l’83% dal Piano di sviluppo Rurale dell’Umbria, il restante 17% delle spese, pari a euro 31,757,49 euro, è stato sostenuto da risorse proprie della Associazione Pro Ruscio APS.

 Il Casale di Colle del Capitano e l’aia dove fu rinvenuta la tomba del carro d’oro (foto D. Prosperini)

 

Per questo reputai che il documentario dovesse necessariamente ruotare attorno a quello che nel 2018 fece letteralmente cambiare il corso della nostra storia ovvero il ritrovamento di sedici lettere dimenticate all’interno di un vecchio faldone ad Ivrea.  La scoperta fatta dallo storico Guglielmo Berattino, fu talmente importante quanto incredibile: per la prima volta venivano svelate le trame del trafugamento della Biga da un punto di vista inimmaginabile: quello dei trafficanti! Ecco finalmente spuntare l’arma del delitto. Iniziai a scandagliare il web cercando che tipo di eco mediatico avesse avuto questa notizia. Appresi con stupore che nel 2018 la scoperta era passata parecchio in sordina; molti articoli su alcuni siti di settore, ma nessuna menzione era stata fatta sui grandi media e tv nazionali. Ero frastornato. Non riuscivo a capire il motivo di tanta indifferenza. Eppure la notizia era una di quelle notizie che ogni giornalista non vede l’ora di dare perché convinto che verrà ripresa da tutto il mondo. Non fu proprio così. Ebbi l’intuizione di immaginare, forse sperare, che non era stata la notizia ad essere poco incisiva, bensì il mezzo da cui essa provenisse; forse era arrivato il momento di entrare in empatia con un pubblico affaticato dalla vita e smettere di chiedergli di leggere libri e opuscoli: “Basta” – mi sono detto – “sedetevi e rilassatevi che a raccontarvi questa storia ci penso io!”. Presi carta e penna e iniziai a scrivere la sceneggiatura che prevedeva interviste a personalità autorevoli che potessero anzitutto illustrare l’unicità di questo reperto in termini archeologici e storici; contattai così Valentino Nizzo, il Direttore del Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, ovvero l’istituzione museale con più reperti etruschi al mondo. Il Direttore Nizzo rispose con favore poiché, oltre a conoscere questo reperto come pochi altri, da anni custodiva un segreto proprio sulla Biga; pensando fosse arrivato il momento giusto, decise di confidarmelo affinché che lo inserissi nel mio documentario. A lui affidai la descrizione delle raffigurazioni dei tre pannelli del carro, anche se poi mi raccontò molto di più. Fu un eccezionale viaggio nel passato.

Diversamente, convincere la ricercatrice del CNR Adriana Emiliozzi a partecipare al mio progetto, fu una vera impresa. La dottoressa Emiliozzi è tra i più grandi esperti di carri antichi al mondo, ma ciò che la frenava nell’accettare la mia intervista, era una questione di opportunità: incaricata dal Metropolitan Museum, fu proprio lei che curò a New York il delicato restauro della Biga, compiuto nel 2007. Se oggi si può affermare che quello trovato a Colle Capitano è un reperto unico al mondo, dobbiamo ringraziare Adriana Emiliozzi che, durante le complesse fasi del restauro, scoprì importantissimi dettagli fino a quel momento sconosciuti anche agli studiosi americani. A quel punto della sceneggiatura serviva un rappresentante del territorio che desse voce alla frustrazione a cui sono sottoposti da 120 anni tutti i monteleonesi. Fu così il turno di Marisa Angelini, la battagliera sindaca di Monteleone di Spoleto che dopo anni passati al fianco di Nando Durastanti (il sindaco che l’aveva preceduta), si era portata in prima linea. Fu lei che portò alla mia conoscenza tutta la documentazione inerente le ultimissime novità che erano scaturite dalle sedici lettere ritrovate da Berattino. Si erano attivati Ministri, aperti tavoli interministeriali, ma al netto ancora nulla. Si rendeva necessaria una voce istituzionale e riconosciuta, esperta del settore dei trafugamenti di opere d’arte e che potesse aggiungere un commento sulle possibili azioni da compiere.

Intervistai quindi di Guido Barbieri, Comandante del Nucleo Tutela e Patrimonio di Perugia. Ricordo l’emozione nell’ascoltare dalla sua voce parole di conforto rispetto alla possibilità di un esito positivo della vicenda: per la prima volta l’attenzione sembrava indirizzata al merito dei documenti e non alla aleatoria interpretazione degli accordi internazionali o dei bilaterali tra Italia e Stati Uniti. Si entrava finalmente nel vivo delle questioni che contano. Soltanto quando passai alla fase del montaggio e di post-produzione, mi resi conto di quello che ero riuscito a fare, della qualità dei protagonisti coinvolti, dell’esposizione personale verso cui mi stavo inevitabilmente dirigendo. Vi confido che entrando in questa vicenda molto più grande di me, a tratti mi sono sentito un po’ come quando stava arrivando il temporale e sapevo di dovermi mettere al riparo in un luogo sicuro. Ma non ero più quel bambino che voleva solo tornare a giocare, ora stavo lottando per un ideale, per la mia terra.

Così, terminato il montaggio, mostrai finalmente a mia moglie Agnese il documentario; è lei il vero termometro della qualità dei miei lavori. I suoi occhi parlarono più di ogni parola.

Tutto sembrava quadrare, ogni tassello mi dava l’impressione di incastrarsi perfettamente con tutti gli altri. Mancava solo una cosa da definire: il titolo. Come anticipato, a venirmi incontro fu il destino, un destino che si dice aiuti gli audaci, quello che fa trovare solo a chi scava. Decisi per “L’anello di Grace”. Il motivo?