Alcuni anni fa, quando ancora affrontavo la salita di Colle Ruscio senza paura, soddisfeci finalmente un mio vecchio desiderio; ripercorrere il vecchio sentiero che i nostri avi usavano per recarsi a Roma, attraverso la Valnerina fino a Terni, dove poi prendevano il treno.
Quindi una mattina io, Nicola e Aldo ci incamminammo lungo la via del colle, continuammo sul crinale del Monte Aspra fino al valico attraverso il quale si discende verso la “valle” (Valnerina) passando per il paese di Terria.
Ab antico su questo valico esistevano terreni coltivati a grano di proprietà di famiglie rusciare e di Terria, che si ritrovavano insieme durante i lavori agresti, specialmente durante la mietitura, al punto che spesso poi le famiglie si imparentavano.
Ad esempio una sorella di mio nonno Antonio Cicchetti, detto Garibaldi, sposò a Terria un membro della famiglia Rosati, ed i suoi figli venivano sempre alla festa di Ruscio (vecchio cacciatore di tartufi).
Al tempo della mietitura si trovavano tutti a lavorare su questi campi, mietevano il grano e nella difficoltà di trebbiarlo in loco battevano le spighe (scapocchiavano il grano), radunavano il grano caduto e le spighe dentro grandi lenzuoli e lo trasportavano all’ara di Ruscio dove finivano la trebbiatura.
All’uopo avevano approntato degli spazi puliti e parzialmente secciati che chiamavano “Arette”, tuttora esistenti.
Tornati così dalla gita, sulla piazza davanti casa mia incontro Antonio Peroni detto “Lu Condosso” (il perché di questo soprannome non lo conosco) e così parlando della strada, del tempo passato, mi raccontò di quando giovane tornava in licenza dal militare.
Anche lui si fermava dai parenti a Terria per la notte, e la mattina seguente partiva verso le otto per arrivare a Ruscio “che ‘ntoccava”, cioè suonava mezzogiorno, e volle così raccontarmi quanto a quell’epoca accadde ad un suo cugino che tornava dalla “Valle” dopo essere andato in giro a riparare caldaie, conche e simili (era ancora molto lontana l’era dell’usa e getta dei nostri giorni); era cioè un calderaro durante l’inverno, quando la natura dormiva.
Dunque costui arrivato sul passo pensò: “E’ ancora presto, quasi quasi mi faccio una sometta di legna”; legò la mula ad un cespuglio, prese l’accetta e cominciò a tagliare gli arbusti. Dopo un po’ che lavorava sentì un lupo che ululava dalla facciata della montagna di fronte, ma lui non ci fece quasi caso.
Un lupo per un uomo come lui, oltretutto con l’accetta, non faceva davvero paura, e continuò quindi il suo lavoro; dopo un po’ di tempo un altro ululato si fece sentire.
Questa volta dalla facciata del Monte Aspra, cioè sopra la sua testa, e allora pensò: “E’ meglio che m’aino” (cioè che mi sbrigo).
Caricò la mula e si incamminò in discesa verso casa. Dopo appena una decina di minuti di cammino, passando davanti ad una aretta, gli si gelò il sangue; l’aretta era piena di lupi.
Non li contò, ma dovevano essere in molti e per quanto impaurito da quella vista prese un sanno e cominciò a batterlo contro il ferro dell’accetta (per fare rumore), s’affrettò spingendo la mula, per quanto potesse permetterlo la strada giù per Aspra e poi per colle Ruscio, attraversò il paese raggiungendo il casale sul colle, chiamò il fratello dicendogli di scaricare la mula ché lui si sarebbe messo a letto per riposarsi.
Si mise a letto con una febbre altissima, e dopo una settimana morì.
Allora si può morire anche di paura? Chiesi.
Evidentemente sì, mi rispose Antonio Peroni detto Lu Condosso.