I rusciari gli hanno dedicato una via, perché non lo hanno dimenticato, ma anche noi romani, che noi romani, che l’abbiamo conosciuto, lo ricordiamo. Quando giunsi a Ruscio con la mia famiglia, nel 1942, Don Sestilio era già il parroco) di questo paese e divideva con i suoi parrocchiani gioie e dolori di quella piccola comunità a lui affidata.
Noi villeggianti passeggiavamo al sole, respiravamo l’aria pura dei monti, sotto le coperte, pensando con sadica soddisfazione a coloro che a Roma non riuscivano a prendere sonno per l’afa, ma non pensavamo ai lunghi inverni di ghiaccio e neve, che flagellavano Ruscio, né ai lupi, che allora si avventuravano fino ai margini del nostro paese e sgozzavano gli animali negli stazzi, né alla solitudine dei giorni bui e tutti uguali che ritmavano la vita dura e amara dei nostri nonni che qui vivevano. E Don Sestilio era con loro.
Lo osservavo mentre camminava, sotto il sole, per le strade del paese e si asciugava il sudore con il fazzolettone spiegazzato oppure mentre chiacchierava con mio nonno o si accalorava in discussioni vivacissime con mio zio Mario, ateo convinto, o consumava un pasto frugale alla nostra tavola, dopo la messa mattutina e pensavo che quel prete era molto diverso dai sacerdoti che frequentavo a Roma.
Questi ultimi erano molto distanti e severi; Don Sestilio, invece, era un uomo pieno di calore, che sapeva apprezzare un buon bicchiere di vino e non si vergognava di fare una partita a carte nell’osteria del paese.
Mio nonno Mariano gli era molto affezionato e ne aveva una grande stima. Mi raccontava che un giorno Don Sestilio vinse, a non so a quale lotteria, una bella moto. Egli non esitò un momento: la vendette e con il ricavato contribuì alle spese dell’unica scuola che Ruscio abbia mai avuto e continuò le faticose marce a piedi o su mezzi di Fortuna per raggiungere sempre e con ogni tempo, le frazioni che dipendevano dalla sua parrocchia.
E proprio a questo suo gesto pensavo quando lo vidi per l’ultima volta, poco prima che morisse, mentre celebrava una messa nella chiesa dell’Addolorata, adiacente la canonica dove era sempre vissuto, ma che oramai non era più sua.
Ormai vecchio e malato viveva in un ospizio per sacerdoti, ma aveva espresso il desiderio di celebrare ancora una messa tra la "sua" gente. Assistito da un sacerdote più giovane,che lo sorreggeva quando era necessario, recitava le preghiere con voce tremula, ma con la fede sincera ed incrollabile che aveva formato tutta la sua vita ed io pensai, con commozione, che avevo avuto il privilegio di conoscere un vero servo di Dio.