Il pieghevole dell’evento
INTRODUZIONE ALLA CERIMONIA
Ogni cerimonia prevede specifici riti e gestualita’.
Anche questa. Riteniamo importante dare qualche breve nota di spiegazione sul suo svolgimento.
La cerimonia ha inizio con l’Alzabandiera: atto di alto significato morale ed etico poiché il Tricolore rappresenta la nostra Patria: la tromba eseguirà TRE squilli rappresentanti l’ordine dell’attenti, la banda eseguira’ l’Inno Nazionale. In questo momento il Picchetto effettuera’ l’alzabandiera. Al termine, la tromba eseguira’ il segnale di riposo.
Il Picchetto armato della Guardia Forestale
Si procede quindi rendendo gli onori ai Caduti.
Anche in questo caso la tromba esegue tre squilli d’attenti, seguiti da ”La leggenda del Piave”, mentre viene deposto l’omaggio ai Caduti. A seguire la tromba intonerà il “silenzio” e poi darà il segnale di “riposo”. Come si nota si tratta di due momenti separati e distinti che evidenziano la gerarchia e gli onori che si devono per primi alla bandiera nazionale e poi a quanti caddero per difenderla. A seguire procederemo alla scopertura del cippo “Una Pietra dal Piave” e alle allocuzioni del Presidente Vittorio Ottaviani, di Gianluca La Posta e del Sindaco Marisa Angelini
Il Segretario Francesco Peroni
la cerimonia dell’Alzabandiera
ALLOCUZIONE DEL PRESIDENTE DELLA ASSOCIAZIONE PRO RUSCIO
Come atto conclusivo delle manifestazioni organizzate dalla Associazione Pro Ruscio per celebrare il Centenario della Grande Guerra, ci accingiamo ora a scoprire un cippo commemorativo, “una pietra dal Piave” a ricordo di quanti, da Ruscio, Monteleone, dalle nostre terre, partirono per il fronte e non tornarono.
Ringraziamo per la loro presenza:
Il Sindaco di Monteleone di Spoleto Marisa Angelini,
Il Comandante la Stazione dei Carabinieri di Monteleone di SPoleto,
Il Comandante la Stazione della Guardia Forestale di MOnteleone di Spoleto
Il Picchetto Armato della Guardia Forestale
La struttura di Missione della Presidenza del Consiglio dei Ministri per la concessione del logo ufficiale delle Celebrazioni del Centenario della Grande Guerra
La Banda di Monteleone “Carlo Innocenzi”
Il Coro Alpino Amici delle Montagne ”Aldo Sisani”.
E inoltre un particolare ringraziamento
A Umberto Pessolano per aver raccolto sul greto del fiume sacro all’Italia, questa Pietra,
Al maestro fabbro Pietro Venanzi per la realizzazione della struttura di sostegno rappresentante il groviglio di filo spinato che tanti fanti si trovarono di fronte durante i loro attacchi disperati alle trincee nemiche
Non piu’ parole di celebrazione oggi, ma il ricordo della vicenda di un nostro Caduto: il Soldato Marco Angelini dalla voce del bisnipote Gianluca La Posta, Tenente dei Bersaglieri.
Il Presidente Vittorio Ottaviani
Omaggio ai Caduti
Il Picchetto Armato
ALLOCUZIONE DEL TEN: BERS: GIANLUCA LA POSTA
Buona sera. Io sono Marco Angelini.
Quello che vi parlerà.
Colui che mi presta la voce è Gianluca, figlio di mia nipote Anna, a sua volta figlia del mio primogenito Orlando; cioè un mio pronipote. Sarà per il suo tramite che vi farò arrivare alcuni miei pensieri.
Il mio è l’ultimo nome inciso sulla lapide del monumento che la gente di questo splendido Borgo ha voluto porre a perenne memoria dei suoi figli caduti nelle Guerre del novecento.
Nella ricorrenza del centenario dall’inizio della Grande Guerra, lasciatemi esprimere il sentimento di gratitudine per quelli fra di voi che hanno voluto creare questa occasione per commemorare quei nove figli di Ruscio che non ebbero la fortuna di ritornare dal fronte, ricordandone il loro profilo di padri, figli e mariti sottratti per la Patria agli affetti dei propri cari.
Bene. Poiché nessuno di voi mi conosce (altrimenti dovreste avere più di 100 anni), vi intratterrò brevemente per farvi sapere chi sono e descrivervi un po’ della mia vita….e della mia morte.
Sono nato a Rescia il 13 agosto del 1881 da Pasquale e Apollonia Rosati. Qui ho vissuto i primi anni della mia vita. La mia famiglia, quella degli Angelini, era benestante, per cui ho potuto studiare. Per i miei tempi ero una persona “colta”. Sapevo leggere, scrivere e fare di conto: mi chiamavano “il ministro”. Possedevamo una discreta quantità di terreni coltivati, ma erano i boschi la nostra principale fonte di guadagno perché, come molti a Ruscio, producevamo carbone che vendevamo a Roma. Lì, infatti, stabilimmo la nostra residenza principale a via Gaeta, zona Piazza Indipendenza, senza mai interrompere il nostro legame con i luoghi natii.
Mi sono sposato a 26 anni, piuttosto tardi per le usanze di allora, con una bellissima ragazza di Ruscio, Maria Belli, che molti mi invidiavano e che ha legato me e la mia discendenza per sempre a questo meraviglioso luogo.
Il Ten. Bers. Gianluca La Posta
Con lei ho avuto quattro figli: Orlando, Simone, Emilia e l’adorata Nannina, vista una sola volta in occasione dell’unica licenza, brevissima, concessami durante il periodo di istruzione militare ed una vita davvero felice, almeno finché è durata.
Purtroppo il 27 dicembre 1916, dopo aver maturato la convinzione di aver scampato la leva, sono stato richiamato alle armi per le quali, in un primo momento, ero stato dichiarato “rivedibile” per via della mia altezza non proprio imponente e per la condizione di padre di famiglia.
Ma, in quel momento, la bulimia della guerra pretendeva sempre più uomini e mezzi per cui, a 36 anni, come moltissimi altri, mi hanno messo una divisa addosso, un fucile in mano e mi hanno istruito alla guerra. Tre mesi di addestramento durante i quali ho sparato, in sei distinti giorni, 6 colpi ogni volta.
Non ci crederete ma sono stato un discreto tiratore: il punteggio conseguito fu piuttosto soddisfacente.
L’impatto con la vita militare è stato decisamente duro. All’ansia propria di chi si appresta ad affrontare la guerra si aggiungevano le preoccupazioni per il futuro della mia famiglia e mi angosciava la possibilità di morire.
È vero, ci si abitua a tutto ma, vi assicuro, che in quei mesi il mio pensiero dominante è stato per la famiglia. Tutto quello che mi capitava era mitigato dal calore delle lettere che ricevevo e da quelle che scrivevo ai miei cari.
I primi tre mesi di istruzione non me li ricordo quasi più, tanto fu lo stordimento per il repentino passaggio dalla condizione di civile a quella di militare.
Ricordo, invece, con grande nitidezza tre momenti di quel terribile periodo che vorrei, brevemente, raccontavi: quello del mio battesimo del fuoco, quello di uno scampato pericolo e quello della mia morte.
Finito l’addestramento, Il 2 aprile del 1917, sono stato destinato al 79° Reggimento della “Brigata Roma”.
Tecnicamente ero un “rincalzo” cioè destinato a riempire i vuoti lasciati nei ranghi della Brigata che stava “riposando” a Camparnò di Vicenza nelle retrovie del fronte trentino, dopo quaranta giorni di prima linea.
Rimasi sorpreso da quello che trovai. Non mi sembrava di stare in zona di guerra. Il tempo trascorreva in modo simile al periodo precedente: Il Regimento riposava sul serio. Le uniche attività erano quelle di istruzione morale ed al combattimento.
Non mancavano attività ricreative: s’era formata una Fanfara che, quasi tutte le sere, suonava pezzi di opere ed altre musiche; si festeggiavano le ricorrenze con attività speciali; l’8 aprile, giorno di Pasqua, l’intera Brigata ha assistito alla messa all’aperto, sono stati preparati una cuccagna, giochi, musica, recite e canti ed è stato distribuito un rancio speciale.
Ma quasi un mese dopo, verso la fine di aprile, sulla rotabile per Schio si intensificarono i movimenti notturni di mezzi, cannoni e truppa.
Fra la truppa cominciò a circolare la voce di una prossima grande offensiva nemica.
Infatti, come temevamo, il 6 maggio il mio reggimento fu inviato in prima linea, lungo le pendici del Monte Majo, e la mia compagnia, la 7ma del 2° battaglione, è stata destinata a presidiare la quota più alta in mano agli italiani, la 1472.
Il libro realizzato in occasione del Centenario della Grande Guerra dalla nipote Anna Angelini
raccogliendo le lettere del nonno Marco
All’una di notte dell’8 maggio il nemico, da quota 1500, ha rovesciato una valanga di fuoco sulle posizioni da noi occupate cui, immediatamente dopo è seguito un attacco delle sue truppe speciali.
Questo fu il mio battesimo del fuoco. Ed ebbi il mio primo vero incontro con la guerra.
Le nostre postazioni furono sconvolte da violente esplosioni. I riflettori fendevano il buio. Incrociando a scatti la loro scia luminosa, illuminavano in modo psichedelico l’assalto nemico.
La mia compagnia reagì con un nutrito fuoco di fucileria e con lanci di bombe a mano. È entrata in funzione anche la nostra artiglieria che ha preso a battere la posizione avversaria alla quota 1500. Quell’inferno è durato sino all’alba.
Come ho detto questo è stato il mio battesimo del fuoco e questo ho vissuto per tutto il periodo che il mio reggimento è rimasto in prima linea in quella zona di fronte.
Infatti, il nemico ha tentato ripetutamente – senza mai riuscirci – la conquista della posizione da noi tenuta: il 10 maggio, il 19, la sera del 23, alle prime ore del 24, la notte del 27 e quella del 1° giugno. Questa è stata la tragica cadenza con la quale quell’inferno si è puntualmente ripetuto.
Ma è stata la notte tra il 23 ed il 24 maggio 1917 che la morte mi ha sfiorato e, solo per un soffio, ho potuto continuare a vivere, se quella può essere definita vita, per altri tre mesi e sette giorni. Voi non potete comprendere com’è cattiva la vita della trincea.
Quella notte fummo colpiti da un fuoco rabbioso di fucileria, mitragliatrici, bombe, lancia fiamme, lancia tubi. Razzi bianchi e colorati solcavano il cielo. Fummo attaccati in forze da reparti arditi. Perdemmo il posto avanzato. Chiedemmo rinforzi.
Ci diedero l’ordine di resistere ad oltranza e ci battemmo con grande determinazione. Il Reggimento non poteva perdere quella postazione che, a prezzo di gravi perdite, aveva conquistato un anno prima. Inoltre non si poteva retrocedere, essendovi alle spalle il pendio a picco della montagna. Poi ricevemmo rinforzi dal reparto esploratori così potemmo rintuzzare l’assalto.
Mentre infuriava la battaglia una scheggia di bombarda ha colpito al centro il fucile che tenevo fra le mani, spezzandolo ma tenendomi indenne.
Lo scampato pericolo lo lessi come un segno benevolo del destino. Così cominciai a invocare una “santa pace” che, speravo ardentemente e ingenuamente, arrivasse prima del prossimo attacco.
Quanto mi sbagliavo! Dovevano passare ancora 17 mesi prima che ciò accadesse. Troppo tardi per me.
L’appuntamento con il mio destino si compì, infatti a fine di agosto di quel 1917, su una landa desolata della Bainsizza. Oggi è uno splendido e ridente altopiano sloveno a pochissimi chilometri dal confine con l’Italia, ma quando vi arrivò il mio reggimento, il 28 agosto, si presentava come un paesaggio surreale. La linea delle trincee nemiche era sconvolta, enormi buche ovunque, reticolati divelti, schegge, proiettili inesplosi, attrezzi, casse di munizioni. Ovunque cadaveri in posizioni grottesche. Ovunque sterminio e distruzione.
Nella notte del 29 agosto la mia brigata si portò davanti alla quota 778 con l’ordine di attaccare le posizioni nemiche prima dell’alba. La strada da percorrere era scoperta e battuta dal nemico. Oltre alle armi avevamo con noi solamente il tascapane e una coperta; nel tascapane cartucce, bombe a mano e una doppia razione di viveri di riserva.
La marcia di avvicinamento alla quota 778 avvenne in silenzio, in fila indiana su una mulattiera dominata dalle posizioni nemiche. Sulla mia compagnia si abbatté improvvisamente una gragnuola di colpi di mortaio procurando feriti e lamenti. Si proseguì sotto il tiro nemico che procurò ulteriori e crescenti danni.
I feriti venivano trasportati indietro; i morti, avvolti nella loro coperta, venivano adagiati ai lati della mulattiera per lasciare libero il transito.
Non facevamo più caso alle vittime sempre più numerose. Si continuava la salita ormai incuranti di tutto.
Arrivati in cima alla mulattiera c’era una specie di pianoro che poteva sembrare un’arena; poi la pietraia saliva per circa duecento metri sino a formare, sulla cima in mano nemica, un cucuzzolo piatto e bislungo. Era la quota 778, tutta sistemata a trincee e protetta da fitte reti di filo spinato.
Quella era la posizione che la nostra brigata “Roma” doveva espugnare.
A ridosso di quella quota fu destinato un battaglione diverso dal mio, il 3°, cui spettava il primo assalto alla posizione nemica.
La mia compagnia sostava in una posizione più arretrata da dove, tuttavia, potevamo osservare, in relativa sicurezza, tutto ciò che avveniva.
Il primo attacco venne preceduto da un martellamento della nostra artiglieria sulle posizioni nemiche. Non appena il tiro viene allungato, due compagnie si lanciarono ad ondate sulle pendici della quota.
Il nemico le accolse con un tiro incrociato di mitragliatrici e bombe a mano. Sul pendio sassoso si accumulavano morti e feriti che intralciano i vivi all’attacco.
Malgrado ciò e, a prezzo di una carneficina, la quota venne vittoriosamente conquistata.
Allora il nemico concentrò un terrificante bombardamento sulle posizioni appena perse. Gli audaci vincitori di quota 778 vennero così maciullati e seppelliti nella trincea appena espugnata e le truppe speciali austriache riconquistarono la posizione.
Altri due attacchi successivi dei nostri reparti venivano battuti dal tiro incrociato del nemico e, sanguinosamente, respinti.
I superstiti rientrarono in disordine trascinando, quando poterono, i feriti. Subentrò una calma innaturale che perdurò per tutta la serata.
Le perdite del reggimento, quel 29 agosto, registrarono 211 morti e 328 feriti.
La 7° compagnia, la mia, sino a quel momento non era stata ancora impegnata. Ma dalla nostra posizione potemmo vivere tutti i momenti di quella drammatica giornata.
Poi, in piena notte si scatenò un violentissimo temporale con tuoni e fulmini. Il nemico approfittò per sferrare un attacco alle nostre linee senza particolari esiti ma che ci ha sottratto la possibilità di un po’ di sonno ristoratore.
Eravamo tutti bagnati. Faceva freddo. All’alba di quel 30 agosto consumammo il rancio e ci tenemmo pronti. Nel corso della mattinata arrivò l’ordine. Venne comandato l’attacco alla 6° compagnia ed alla 7°, la mia.
Il mio stato d’animo non era diverso da quello degli altri. Impazienza, ansia e paura ci toglievano il respiro.
Alle 11 del mattino le nostre batterie aprirono il fuoco per mezz’ora. Subito dopo scattammo all’attacco della quota 778.
L’assalto avvenne con accanito vigore, ma la resistenza nemica fu tenace e ad oltranza. Il tiro incrociato delle sue numerose mitragliatrici e le bombe a mano aprirono nuovamente vuoti spaventosi tra le nostre fila. Le ondate rientravano decimate nelle posizioni di partenza mentre fuori gemevano i feriti.
Ecco, io sono caduto dopo le undici e mezzo nell’inferno che ho appena descritto. Non saprei dirvi se sono morto subito o se sono stato ferito. Il tiro amico e nemico che si alternava su quei luoghi ha fatto scempio dei corpi dei morti e di quelli feriti, degli amici e dei nemici. Per cui il mio corpo non fu mai identificato. Fui catalogato tra i caduti dispersi.
Non vi so dire se ho sofferto, se ho avuto paura. Sicuramente il mio ultimo pensiero l’ho rivolto ai miei cari: ai miei fratelli, a mia moglie ed ai miei amati figli che non avrei più rivisto.
Ecco, questo io fui. Questo mi è successo.
Ringrazio tutti voi per avermi voluto ricordare.
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La scopertura del Cippo Commemorativo "Una Pietra dal Piave"
Hanno partecipato alla manifestazione la Banda "Carlo Innocenzi" e il Coro Alpino "Amici delle Montagne – Aldo Sisani" di Spoleto.
tratto dal pieghevole dell’evento
tratto dal pieghevole dell’evento