“Di una miniera abbandonata, una risorsa ritrovata?”

By proruscio

Senza memoria non c’è futuro”.

Grazie all’approvazione da parte del Servizio Civile Nazionale del progetto presentato dalla Pro Ruscio, 12 ragazzi del Comune di Monteleone di Spoleto e di Norcia hanno svolto un lavoro di ricerca sulla “Miniera di lignite di Ruscio”.Un lavoro tradotto in pubblicazione  – presentata al teatro comunale di Monteleone di Spoleto il 25 agosto 2007 – che ha ripercorso l’esperienza di un vissuto nel nostro territorio, analizzando i tratti geomorfologici, paesaggistici del bacino minerario della valle del Volga ed i risvolti sociali ed economici che quella miniera ebbe sulla comunità degli abitanti del nostro Comune.

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La miniera di Ruscio – La discenderia.

I “Volontari”, dopo aver esposto – a carattere generale – le caratteristiche scientifiche della Lignite in Valnerina e a Ruscio (a cura di Paolo Petrini), le tecniche della lavorazione della Lignite (a cura di Lucia Brandimarte, Valentina Castiglia, Emanuele Battilocchi e Tiziana Brandimarte),  gli strumenti e gli equipaggiamenti utilizzati nelle miniere, l’economia delle miniere stesse dislocate in Umbria (a cura di Francesca Massi, Valentina Pastiglia, Emanuele Andreoli e Marco Baldini), sono passati all’esposizione delle testimonianze sul lavoro svolto nella miniera (a cura di Alessandro Angelici, Domenico Angelini e Manuela Di Martino) e del suo utilizzo quale campo di prigionia durante la seconda guerra mondiale (a cura di Sonia Angelini).

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La miniera di Ruscio – Minatori in posa.

Proprio perché vogliamo che la “memoria di quello che fu” rimanga nei tempi, riportiamo su queste pagine – adattandole a testo – le interviste rilasciate da alcuni compaesani ai nostri ragazzi su quella vecchia esperienza lavorativa, nell’attesa che la ricerca possa vedere le stampe all’interno della Collana “I quaderni di Ruscio”. 
 
Testimonianza di AGABITI DOMENICO ANTONIO

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Il signor Agabiti Domenico Antonio

 “La mia esperienza di lavoro nella miniera di lignite è cominciata nel 1936 quando ero ancora minorenne. I minorenni come me potevano entrare a far parte delle squadre di lavoro solo come volontari.
Il lavoro in miniera era un’opportunità lavorativa per tutti, anche per i prigionieri nel campo di prigionia adiacente le miniere stesse. Se essi sceglievano di lavorare potevano beneficiare di concessioni particolari, come la doppia razione di cibo e/o buoni da 1 lira o ½ lira.

Fra i deportati erano i più attivi gli slavi ed i montenegrini a differenza degli africani che difficilmente sceglievano di lavorare in miniera e preferivano passare il loro tempo cantando.
Allora c’erano cinque miniere denomonate Scoppacamere, loc. Camponero, le Talpe, Babillone e la Nona anche se il banco lignifero era il medesino e si trovavano lungo l’altopiano che si distende da Ruscio a Leonessa attraverso il fiume Vorga.
Io lavoravo nella miniera denominata ”le Talpe” e la mia mansione era quella di monovratore: gestivo il traffico di carrelli in entrata ed uscita. A volte preferivo estrarre 10 carrelli di lignite, alternativa spesso scelta dai minatori per ovviare alle effettive 8 ore di lavoro.

Il materiale estratto veniva trasferito all’esterno della miniera per mezzo di carrelli collegati ad un argano a motore elettrico. Il carrello veniva portato verso una base sopraelevata ed il contenuto di lignite veniva ribaltato in un camion, trasportato a Ferentillo ed infine a Terni.

La nostra paga era di 600 lire l’ora, pari a 4.800 lire al giorno. La miniera era dotata di un dottore che prontamente interveniva quando accadevano incidenti. Per gli infortuni più gravi – ne ricordo pochi – l’interessato aveva diritto alla pensione d’invalidità.

La miniera di Ruscio

I rapporti tra noi operai erano buoni. In quel periodo c’era il regime fascista e chi lavorava in miniera poteva considerarsi molto fortunato perché era esonerato dal servizio militare. Ma dovevamo stare attenti perché “una lite” significava “andare al fronte”. Quindi ogni piccolo attrito veniva smorzato. Durante quel periodo ebbi anche l’occasione di conoscere alcuni deportati che lavoravano nella miniera. Molto spesso ho dato loro del cibo in cambio di piccoli utensili che costruivano nei momenti di riposo.

Quando il campo di prigionia venne smantellato, molti di loro vennero ospitati dalla mia famiglia e da altre a cui offrivano la loro forza lavoro in cambio di vitto e alloggio. Poi in quel periodo cominciai anche un altro piccolo lavoro quello della riparazione delle biciclette (mezzo con il quale si spostavano molti operai e persome a quel tempo).

Ho un bel ricordo di quel periodo anche perché  ho conosciuto tante persone diverse e anche un ricordo spiacevole: il grave incidente accorso a Salvatori Armando.
Di quel periodo conservo ancora una “forca” che veniva utlizzata in miniera ed alcuni metri di “ferro spinato” che circondava il campo di prigionia”.

Testimonianza di CICCHETTI RENATO

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Il signor Cicchetti Renato

 “Iniziai la mia esperienza di lavoro nella miniera nel 1943 e vi rimasi solo un anno. Allora ero “carrellista” cioè addetto al carico dei vagoni ed al loro trasporto in superficie. Ero una sorta di assistente del minatore in quanto ognuno di essi aveva un proprio “carrellista”. Io ricordo che lavoravo con un certo Luigino di Rescia.

La miniera era costituita da una galleria centrale di 2 mt. x 2 mt. e da gallerie laterali più strette dette anche traverse. I binari percorrevano la galleria principale ed all’incrocio con le traverse c’erano delle piattaforme girevoli che consentivano facili manovre con i carrelli. Questi, dalle gallerie laterali venivano spinti fino alla galleria principale, dove venivano agganciati – uno dietro l’altro – ad un argano elettrico che li tirava in superficie.

Per l’estrazione della lignite veniva aperto un condotto principale o discenderia che aveva una pendenza del 20% circa. Gradualmente si scendeva seguendo il banco di lignite da estrarre. Queste gallerie venivano poi puntellate con travi e montanti di legno ed interrotte ogni tanto con delle piazzole pianeggianti dove veniva gestito il traffico dei carrelli. Quelli vuoti che entravano e quelli pieni di lignite che uscivano.

Man mano che il minatore andava avanti con lo scavo e sbancava la lignite io caricavo i carrelli che trasportavo poi fuori dalla galleria e finivano su una piazzola dove al di sotto vi era un camion. I carrelli erano ribaltabili e la lignite così veniva caricata sul camion. A volte questa operazione si faceva anche a mano con la pala.

Allora vi erano diversi ingressi. Io ne ricordo ben cinque. “Colle Scoppacamere” che era una miniera a banco scoperto e funzionante con un sistema autonomo. “Camponero” che era una miniera costituita da una galleria piana che si inseriva sotto il monte detto “Li colli”. Poi c’era “Prada di San Giuseppe”, miniera dotata di 2 gallerie, una piana e una discendente, limitrofa a Villa Pulcini e Villa Ciavatta. La miniera “Vaglioni”, invece era posta a est. Era costituita da n° 2 discenderie, un argano e tre edifici esterni per le maestranze e la manutenzione. Le due discenderie percorrevano l’interno della terra ad una pendenza del 22% ed erano collegate tra di loro tramite gallerie. Per ultima c’era la miniera denominata “Vecchia cava” che rimase attiva fino al 1915.

Il guadagno era magrio e ci bastava appena per sopravvivere. Inoltre era molto faticoso quindi alla fine ho resistito solo un anno ed ho preferito andare a fare il taglialegna”.

 Nel prossimo numero: il Campo di prigionia n° 117 che si trovava nelle vicinanze della Miniera.

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