Mi ricordo

By proruscio

Sono ormai cinquant’anni che trascorro il mese di agosto a Ruscio (eccezione fatta per alcuni periodi in cui motivi familiari me lo hanno impedito) e mi rivedo ancora insieme alla mia famiglia, fratello, nonni, mamma e papà, sul vecchio taxi giallo di Mario “Capo di Ferro” di Monteleone, che arranca sulla strada polverosa e stretta che ci portava al paesino. Il viaggio durava circa quattro ore (sosta per la pipì, qualche “contino” tanto per gradire, sorsate d’acqua ad una fontana, sguardo al panorama, raccomandazioni di mamma e di papà all’autista perché rallentasse sulle curve a gomito…). Spesso ci trovavamo dietro alla corriera, il glorioso sabino, guidata da un omone di nome Nello dovevamo rallentare ulteriormente la marcia tra le coloratissime imprecazioni di Mario, che vedeva così sfumata la possibilità di un altro viaggio in giornata e quindi in un altro guadagno.

E poi finalmente eccoci giunti alla meta: Piazza dei Sei n. 15 e mentre le donne e gli uomini si davano da fare a scaricare i bagagli e ad aprire le finestre per arieggiare la casa, mio fratello ed io esploravamo la cantina, ci avvicinavamo curiosi al pollaio ed alla porcilaia della famiglia Compagnucci, ne respiravamo a pieni polmoni l’afrore (che oggi definiremmo, brutalmente, puzza nauseabonda) e non mancavamo di fare una visitina al mulino (un po’ prima del bivio di Monteleone), affascinati dal candore della impalpabile farina, che non solo riempiva sacchi e sacchi, ma si posava come neve su ogni cosa, anche sui vecchi mugnai che sembravano fantasmi buoni.
Arrivava infine l’ora del riposo e noi piccoli dormivamo su un letto fresco ed odoroso di foglie di granturco, che scricchiolava allegro ad ogni nostro movimento e ci accoglieva in un abbraccio, certamente non anatomico, ma rassicurante ed eccitante insieme. Poi i giorni si susseguivano gli uni agli altri, sempre nuovi e diversi: ecco il mastello di legno della nostra vicina Costanza fuori dalla porta, pieno di lenzuola immerse in un liquido grigiastro, steso poi sull’erba dei prati ad asciugare: ecco la fila delle donne che si recavano al forno sostenendo con la testa una tavola lunghissima di pani da infornare, coperta con un telo fresco di bucato; le loro vesti erano povere e stinte, ma il loro portamento poteva fare invidia all’incedere delle indossatrici e si spandeva nel forno la fragranza del pane cotto, si levava nell’aria il raglio dei somari, il belato delle pecore ed il muggito delle vacche, che attraversavano il paese di primo mattino ed al tramonto, mentre le ore canoniche del lavoro nei campi era sottolineato dal rintocco deciso della campana della piccola chiesa di Sant’Antonio, oggi raramente aperta al culto.

Ne ricordo la frescura all’interno, sento le voci “baritonali” di Maria, la Paternostrara, che intonava con vigore il TANTUM ERGO e respiro  ancora il profumo dell’incenso nel turibolo agitato, forse con pia devozione, ma sicuramente con goliardica spavalderia, da mio cugino Gianni, che faceva il chierichetto ed indossava la cotta troppo corta per il suo corpo robusto da bambino vivace, sempre sudato, dopo le corse ed i giochi a cui partecipavo anch’io (quando me lo permetteva) e che consideravo “audaci“. E forse lo erano. Gianni era estremamente inventivo: lui, mio fratello Pino ed io scendevamo a rotta di collo dal pendio erboso del Colle, cavalcando (in tre) la “spianatora” per la pasta di nonna Bartolomea, che poi era costretta a pulirla con la scopetta ed il sapone per togliere le tracce d’erba e di terriccio.

E come dimenticare i salti nella “pula” o “Cama” come la chiamano qui, ammucchiata sotto il fienile del vecchio Battista Carassi? Salivamo su una scala fino al sottotetto e poi …. giù e non ci fermavano né i graffi né i divieti delle mamme. Che festa quando nonno Mariano (Mino per i rusciari) costruì un vero bagno (mattonelle rosa-porco e vasca in miniatura) che finalmente ci evitava di lavarci dentro la tinozza in cucina nel traffico indifferente di una famiglia, che d’estate era di dieci persone, che certo non rispettava la privacy di noi bimbetti che, nudi, venivamo ripetutamente insaponati e poi risciacquati con brocche d’acqua non sempre calda e strofinati poi senza nessuna pietà con spugne che non “conoscevano” l’ammorbidente Coccolino.

Echeggia ancora nell’aria la voce del contadino che veniva da lontano con il suo asino con le gerle cariche di fichi “Ficara, donne, Ficara!!” ….. E presto i fichi venivano schiacciati in mezzo a due fette di pane con prosciutto. Che delizia!!

Ricordo il prato davanti alla casa dei Peroni, dove pascolavano cavalli da tiro che noi cavalcavamo a passo lento per il paese, dopo aver ottenuto il permesso da Isidoro; e le feste in casa con i dolcetti, gli analcolici ed i genitori presenti, anche se nascosti in cucina: si ballava anche sulla “strada romana”, con il mangianastri portatile: le coppie avevano sempre il tempo di finire i “lenti”, tanto il traffico era praticamente inesistente ….

La Notte di San Lorenzo noi ragazzi facevamo una veglia sotto le stelle nel prato di Simone Angelini: avvolti in pesanti coperte contavamo le stelle e parlavamo del futuro ….

Ora io vivo questo futuro e non so se è proprio come lo sognavamo, ma riecheggia ancora nella mia mente il grido felice e buffo di mio fratello che insieme all’inseparabile amico Mario Reali, ripeteva correndo sul ponte ancora di legno del fosso: “Arriba, arriba! Mi, mi!” che anche i bambini di oggi, appassionati di fumetti , conoscono; ma sopra tutte le altre voci si leva forte e chiara quella del mio simpaticissimo ed amatissimo nonno, che canzona il suo amico di sempre e vicino di casa, Gaetano Belli, che gli risponde per le rime, ma sempre con bonaria anche se un po’ pungente, proprio come nelle stornellate romane “a dispetto” e sento che la mia infanzia forse non è ancora finita, per lo meno non qui a Ruscio, anche se sono una bambina di “mille mesi”, come soleva dire mio padre di una persona un po’ in là con l’età.