Coloro che transitavano dallo Stato pontificio al regno di Napoli e viceversa era d’obbligo fermarsi alla dogana e pagare una tassa per i prodotti che si trasportavano. Ai tempi d’oggi non c’è più la dogana, ma lungo la strada per Leonessa c’è una locanda, dove è quasi d’obbligo fermarsi per comprare le sigarette, per sorseggiare un bitter, farsi un panino o sedersi per consumare un pasto. Da Giggetto, sorriso pulito e sguardo sincero dietro un paio d’occhialetti, e da sua figlio Pietro ho mangiato le migliori “sargicce” di fegato, accompagnate da un bel bicchiere di rosso delle Marche. La nuora, esile come canna, serviva a tavola, mentre Ritina, la piccola, spuntava tra i banconi.
Era facile, entrando nel bar-negozio-ristorante, trovare Josafat, chiamato da tutti Josafatte, uno scapolone ben piazzato, capelli folti tra il rossiccio e il biondo, che amava appoggiarsi con i gomiti sul bancone, mentre la destra teneva fermo il bicchiere che Gigetto di tanto in tanto gli riempiva. Con la testa curva verso il bicchiere, si girava prontamente per squadrare sott’ occhi chiunque aprendo la porta avesse fatto dondolare la campanella. Poi, sorridendo, sogghignava un suo commento, seguito da una strana risata. Ce n’era per tutto e per tutti!
Si sa, ogni paese ha la sua “pecora nera”, quei soggetti che si distinguono dal resto per la loro originalità, simpatia ed anche sfrontatezza. Non era cattivo Josafatte, ma amava divertirsi con poco, raccontando fatti inventati, sorridendo benevolmente su presunti difetti altrui. Insomma era conosciuto, ma anche veniva stimolato, per cavargli di bocca qualche battuta sarcastica o semplicemente per farsi una risata alle spalle di un malcapitato.
Questa era il povero Josafatte, ed ora che non c’è più si sente: manca un pezzo importante nel puzzle del paese!