Ricordi di una maestra

By proruscio

A volte la vita riserva delle gradite sorprese!

Durante la cerimonia di assegnazione del premio letterario “Fenice Europa” che si è svolta a Monteleone di Spoleto sabato 9 Settembre u.s. abbiamo avuto la fortuna di incontrare la segretaria del premio Signora Maria Antonietta Benni Tazzi, persona squisitamente gentile e di grande cordialità.

 Ma la cosa più sorprendente è stata quella di aver scoperto che il primo ottobre 1956 la Signora Benni Tazzi  fu mandata ad insegnare nella scuola elementare di Rescia dove rimase per l’intero anno scolastico e l’anno successivo venne ad insegnare a Ruscio.

Che emozione richiamare alla memoria tempi passati, quasi dimenticati, di una vita fatta di tanti sacrifici nell’assenza assoluta di ogni comodità: ci si accontentava dell’essenziale, pochi semplici vestiti , un mangiare sobrio fatto di cibi che la natura, non sempre generosa, offriva.
 Agli occhi dei giovani, abituati alle comodità moderne potrà sembrare impossibile che si sia potuto vivere in quelle condizioni. Eppure dalla viva voce della nostra maestrina (ci sia scusata la affettuosa familiarità)  apprendiamo che “A Ruscio non c’erano divertimenti, ma in compenso si poteva respirare un’aria salubre e profumata; si poteva godere di un vitto buono e genuino e della compagnia di gente generosa nella loro rude schiettezza di montanari.”.

La Signora Benni Tazzi ha anche scritto un racconto, “Serafino”, che tratta di un episodio di vita vissuto a Ruscio e pubblicato in un suo libro di memorie.

Degno di nota è il modo in cui  la maestra, per ovvi motivi di privacy, ha cambiato non solo i nomi dei protagonisti (Angelo e’ diventato Serafino), ma anche i nomi dei luoghi scegliendone di nuovi in modo molto significativo: Ruscio è diventato Valle ombrosa, Rescia invece  diventa Montelupo e Cascia viene chiamata Roccasanta.

Cediamo volentieri la penna alla Signora Benni Tazzi, ritenendo di fare cosa gradita ai lettori della Barrozza, e pubblichiamo integralmente l’articolo che ha inviato al  Presidente della Pro Ruscio,Vittorio Ottaviani, perchè offre uno spaccato di vita quasi eroica, affrontata da una giovane maestra di 25 anni per insegnare a leggere e scrivere ai figli di uno sperduto paese di montagna.

Quest’anno la manifestazione finale della 9° edizione del Premio Letterario Fenice-Europa si è tenuta a Monteleone di Spoleto.
Nel raggiungere la sede, ho rivisto le montagne che attraversavo cinquant’anni fa, quando andavo ad insegnare in quelle bellissime zone; infatti, il 1° Ottobre del 1956, e poi il 1° Ottobre dell’anno seguente, fui mandata ad insegnare rispettivamente, nelle scuole elementari delle frazioni del Comune di Monteleone, in piena montagna: a Rescia e a Ruscio.

Scuola di Ruscio A.S 1957 - 1958

Scuola di Ruscio A.S 1957 – 1958

Mi guardavo intorno. La natura è sempre quella: montagne a perdita d’occhio davanti a me, diversamente colorate mano a mano che s’allontanano: verdi, azzurrine, violacee, grigie, fino a confondersi con il cielo.
Lungo il tragitto ho raccontato agli amici organizzatori del Premio gli episodi (numerosissimi) di quel tempo.
 Ho ricordato le fatiche, le ansie, le esperisenze affrontate e sofferte, ma anche le belle soddisfazioni e, soprattutto, gli insegnamenti di una vita sana ed onesta ricevuti dalla gente di montagna.
Quanti episodi mi sono tornati alla mente! Quante volte mi sono trovata a percorrere quelle strade, allora impervie, in mezzo alle tormente di neve, sotto la pioggia o con il solleone!

Arrivata a Monteleone di Spoleto, nel caratteristico ed accogliente Hotel Brufa, il mio primo pensiero è stato quello di guardare verso la vallata: laggiù c’era Ruscio, dove trascorsi un anno scolastico intenso, sofferto e piacevole al tempo stesso. Laggiù vedevo lo sterrato del fiume Corno attraversare la vallata come una grande ferita bianca e la strada, oggi asfaltata (a quel tempo era soltanto un sentiero o, meglio, una mulattiera) che sale su su fino alla frazione di Rescia nascosta dietro l’alta montagna.

A Ruscio c’ero ritornata tempo fa, con la mia famiglia, unicamente per rivedere un posto per me indimenticabile; l’avevo trovato mutato. Le vecchie case di pietra antica grigio-scura non c’erano più. Un ponte, che nel 1956 non esisteva, ora scavalcava il fiume Corno ridotto a torrente, dove però non scorre più nemmeno una goccia d’acqua. Nel 1956, per raggiungere Rescia, io lo attraversavo a guado o a piedi o a cavallo di Regina, una mula che mi veniva gentilmente prestata da un cortese contadino. Di acqua ce n’era sempre; al minimo mezzo metro.
Il padrone del ristorante, dove ci eravamo fermati a pranzare, ci disse che il terremoto del 1983 aveva fatto grandissimi danni e che le case erano state ricostruite. Adesso avevano assunto l’aspetto di dignitose case in muratura, riverniciate, quasi piccoli villini di montagna. Tutto s’era trasformato e snaturato.
Non ho ritrovato più la casetta rosa con il balconcino che dava sulla piazzola e dove ho abitato per un anno intero. Abbiano girato più e più volte per ritrovarla; niente. Tutto era cambiato.

Qui molta gente ha lasciato i campi e la pastorizia.  E’ emigrata per lo più a Roma e con i soldi guadagnati con il proprio lavoro ha rimesso a posto la casa di montagna, dove viene in villeggiatura. Così ho visto gente dall’aria cittadina e ben vestita.
Dove sono andati a finire gli abiti scoloriti che portavano, gli scarponi ai piedi, le strade infangate? A Ruscio non c’erano molte comodità; ma in compenso, al contrario di Rescia, nella mia casetta rosa avevo l’acqua, la corrente elettrica, il bagno, la provvista di legna per accendere il camino e una piccola sala da pranzo dove ricevere gli amici.
A Ruscio esisteva una locanda, “Da Gigetto” (m’è stato detto che esiste ancora), dove l’anno prima, quando insegnavo a Rescia, talvolta mi fermavo a dormire, perché durante il pomeriggio del sabato, fino a sera, non era transitato alcun mezzo che potesse darmi un passaggio (a quel tempo non si chiamava autostop!) che mi permettesse di tornare a casa, a Terni.

Da Ruscio, invece, potevo muovermi meglio perché durante l’estate m’era stata regalata dal mio geloso fidanzato (oggi mio marito) una Fiat 600 comprata di seconda mano. Con quella vecchia automobile bicolore, grigio-perla e rosso amaranto, quanti passaggi detti ai miei colleghi appiedati!
A Ruscio non c’erano divertimenti, ma in compenso si poteva respirare un’aria salubre e profumata; si poteva godere di un vitto buono e genuino e della compagnia di gente generosa nella loro rude schiettezza di montanari.
Rivedendo Ruscio, sia pure dall’alto, i ricordi che mi sono tornati alla mente sono stati tantissimi. Trascriverli tutti mi sarebbe impossibile; dovrei scrivere un romanzo e forse nemmeno basterebbe; ma ai miei amici non finivo più di raccontare (e nel raccontare mi commuovevo) e loro mi ascoltavano interessati, interrompendomi di tanto in tanto con delle domande, che esigevano chiarimenti.
Oggi, non è facile capire lo stile di vita di quel tempo e certe situazioni, che io avevo vissuto, a loro sembravano impossibili.

Ho narrato di quando venivano a trovarmi i colleghi (qui di seguito nominati) e di quante risate e cantate (andavano di gran moda le canzoni di Modugno) abbiamo fatto nella nostra beata gioventù, che se ne fregava dei sacrifici che dovevamo affrontare.
Li ricordo tutti i miei colleghi: il siciliano Carmelo Buemi, che mi aveva sostituito a Rescia; la ternana, Raffaella Morbidoni, che insegnava con me a Ruscio (io facevo la 1° e la 2° classe, lei la 3°, la 4° e la 5°); Alba e Liliana Cevoli, due sorelle romane, che avevano insegnato a Ruscio l’anno prima, quando io stavo a Rescia; quell’anno erano state trasferite a Monteleone; e la bruna romana Fausta (non ricordo più il cognome), che insegnava a Trivio. Alcune mie colleghe si trovarono così bene tra quelle montagne e tra quella gente che vi si fermarono per sempre, mettendo su famiglia. Liliana si era innamorata di Vincenzo, un giovane bancario di Monteleone e lo sposò; Fausta si era innamorata di Filippo (se non ricordo male era il segretario comunale) e anche lei con lui covolò a nozze.

Ho raccontato agli amici di quella volta che, alle cinque del mattino, con la mia 600 portai all’ospedale di Cascia una donna incinta con le doglie in corso.Era gennaio, era ancora notte e c’era tanta neve.
Ho ricordato la mia ansia lungo la strada innevata! Tra l’altro ero signorina e a quel tempo sapevo poco o niente di sesso (e quel poco malamente; l’educazione sessuale era un ternine sconosciuto); perciò, non avrei saputo dove mettere le mani se la donna avesse partorito in macchina.

Arrivammo all’ospedale appena in tempo. In modo naturale e senza problemi, dette alla luce il suo terzo maschio, al quale fu imposto il nome di Serafino. Quando ritornai in paese, trovai gli abitanti di Ruscio che, in grande agitazione, mi aspettavano davanti alla scuola. Quando detti loro la bella notizia, che il bimbo era nato, era bello e la mamma stava bene, mi portarono in trionfo quasi avessi fatto chissà quale miracolo.
 Ho ricordato la gratitudine infinita di quella famiglia; una graditudine che si concretizzò con doni in natura. Per Pasqua mi regalarono: un agnello, un cesto d’uova, una ricotta, una torta dolce fatta in casa e due forme di formaggio percorino stagionato. Tra le due forme, per non mettermele in mano timorosi d’offendermi, avevano nascosto una carta da 1.000 lire (il valore intrinseco di quella somma deve essere rapportato alla valuta del 1958, quando prendevo uno stipendio mensile di 44.000 lire). Non ci fu verso di poterle restituire.

Ho raccontato della recita che, in occasione della “Festa della mamma”, io e la mia collega Raffaella Morbidoni, insieme alle suore e ai bambini della scuola materna, organizzzammo con tutti gli alunni della scuola elementare. Erano presenti, oltre agli abitanti entusiasti, le personalità civili e religiose del tempo: il sindaco di Monteleone, il Direttore didattico di Cascia, il Parrocco Don Sestilio Silvestri e la Madre Superiora. Fu un successone. Andammo a finire sul giornale.

Ho conservato l’articolo nell’album dei miei ricordi scolastici. Ormai è ingiallito e consumato; anch’esso ha quasi cinquant’anni di età, ma è una testimonianza preziosa, che non vorrei perdere.
Quelli trascorsi a Rescia e a Ruscio furono per me due anni di grossi sacrifici; ma furono anche anni di grosse e valide esperienze di vita umana e scolastica.
Quanto mi hanno insegnato quei montanari che non sapevano né leggere e né scrivere e che parlavano per proverbi! Quanta saggezza! Quanti valori! Quanto rispetto ed affetto ho ricevuto da loro!

Oggi, guardando la vita moderna, può sembrare che tutto sia perduto, crollato e che ciò  che è stato ricostruito, anche se apparentemente è più bello, non valga nemmeno un’unghia di ciò che c’era allora! Ma non è vero.
A Monteleone di Spoleto, alla manifestazione finale del Premio Letterario Fenice-Europa, ottimamente organizzata e gestita dall’Amministrazione Comunale con la collaborazione dell’intero paesse, presenti anche i rusciari, a cominciare dal Presidente della Pro Loco, Sig. Vittorio Ottaviani, ho ritrovato intatte l’educazione, la semplicità, la disponibilità, la generosità, l’affabilità della gente degli anni ’50. Le cose che hanno più valore non sono cambiate.

Ne ho ricavato un ulteriore grande insegnamento: i veri valori di vita, morali e sociali, lì esistono ancora. La gente di montagna ha dimostrato al numeroso pubblico intervenuto (oltre seicento persone sono venute da fuori e alcune anche dall’estero) che con la disponibilità, l’impegno, l’aiuto e le forze di tutti si possono fare grandi e bellissime cose, che rendono la vita degna di essere vissuta.

Ospedalicchio, 16/09/2006

Maria Antonietta Benni Tazzi