Santa Maria De Equo

By proruscio

Quando arrivai a Ruscio per la prima volta, ormai qualche anno fa, rimasi subito colpita dalla bellezza del paesaggio, che ho imparato ad apprezzare sempre più col passare del tempo, essendo ormai divenuta una “rusciara d’adozione”. Eppure, ricordo che già allora cercai subito nel borgo medioevale aggrappato ostinatamente al monte e nella sua frazione a fondo valle testimonianze storiche, non riuscendo ad appagarmi delle sole ricchezze naturali per una sorta di mia deformazione professionale.

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(foto Sergio Occhiuzzo)

Non impiegai  molto a scoprire un piccolo gioiello custodito dalla bella piana di Ruscio, la chiesa di S. Maria del Piano, che solleticò tanto il mio interesse da restare in me un’idea fissa, che da sempre mi sono ripromessa di riprendere in mano.
Ecco, allora, che il nostro periodico mi permette ora di tornare a un antico amore per una chiesetta che in assoluto non avrà valore artistico uguale a quello di tanti monumenti italiani, ma ne riveste uno locale davvero ineguagliabile di carattere storico e culturale.

Situata al centro della vasta piana, formata dai depositi alluvionali del fiume Corno e dai detriti di falda dei rilievi circostanti e perciò naturalmente fertile e da sempre adatta alla coltivazione e al pascolo, la chiesa di Santa Maria del Piano è di fondazione altomedievale (tra l’VIII e il IX sec.) epoca in cui sono testimoniati un oratorio e alcune celle monastiche, presto trasformatisi in un priorato benedettino dipendente dalla potente Abbazia di Ferentillo, uno dei più importanti complessi monastici altomedievali di tutta l’Italia centrale.

Il titolo originario della chiesa, Santa Maria de Equo, dipendeva dall’essere il centro di culto più rilevante dell’antico gastaldato longobardo denominato “equano”, all’incirca coincidente con l’area di tutto l’attuale comune di Monteleone di Spoleto.
Il gastaldato era uno dei nuclei amministrativi, normalmente nelle mani di un nobile -il gastaldato per l’appunto- e della sua stirpe, dei ducati longobardi, il maggiore dei quali nell’Italia centrale era proprio quello di Spoleto.

Già a quell’epoca la pieve di Santa Maria doveva assolvere a più funzioni, non solo religiose,ma anche legate alla vita sociale delle piccole comunità campestri disseminate nella piana e sulle alture circostanti, come quella di sede di mercato e di luogo di riunione festiva delle famiglie di agricoltori sotto al portico e nel piccolo atrio che un tempo doveva precedere l’edificio di culto, a giudicare anche dai blocchi di pietra ancor oggi visibili e disposti regolarmente a pianta rettangolare davanti alla porta d’accesso, La costruzione attuale è di evidenti forme romaniche ed è, quindi, possibile farla risalire ad un periodo tra l’XI e il XIII sec.: è realizzata in cortina a filari regolari di conci ed ha un portale semplice ma elegante, mentre il portico è certamente più tardo ed è stato restaurato in anni recenti per riparare al grave dissesto in cui era caduto. L’edificio, che presenta inseriti nelle mura perimetrali blocchi di pietra di antichi edifici romani -del resto, l’esistenza di insediamenti già in epoca romana e ancor prima etrusca in questa zona è ben nota a tutti-, è particolarmente lungo perché, oltre alla chiesa ingloba quanto resta della struttura altomedioevale, vale a dire un ambiente che venne ,sempre adibito a ricovero per eremiti. Abbiamo notizia certa che nel XIV sec. visse qui come eremita operando anche dei prodigi il nobile Fra Gilberto dei Tiberti, la famiglia che fin dal IX sec. aveva governato come proprio feudo Monteleone, ricevendo la consacrazione anche da Federico Barbarossa.

Essi appartenevano ad un ramo dei nobili Attoni, signori di Arrone, Ferentillo e Piediluco, e il loro feudo comprendeva anche Vetralla, Pienezza e Terzone ed era da loro chiamato "terra tibertesca". La tradizione di eremitaggio legata alla chiesa di Santa Maria si è mantenuta intatta nel corso dei secoli, anche dopo che essa aveva perduto nel sec. XVII il titolo di parrocchia a favore di San Nicola a Monteleone, ed è ancora viva nella memoria degli abitanti di Ruscio fino almeno al periodo fra le due guerre mondiali.

L’interno della chiesa è di linee estremamente semplici, come è tipico delle pievi di campagna, e presenta un altare settecentesco dal fastoso carattere barocco, su cui erano attestati dipinti databili al 1770 circa, oggi scomparsi perché trafugati. Alle spalle dell’altare, ad una quota più bassa rispetto alla navata, c’è un piccolo ambiente rettangolare coperto da una volta a botte, che potrebbe identificarsi con l’originaria cripta romanica ricavata sotto alla stanza usata dagli eremiti come proprio alloggio: i due piani erano comunicanti fino ad alcuni decenni fa tramite una scaletta, per consentire agli eremiti stessi di scendere in chiesa senza passare dall’esterno nei mesi freddi dell’anno. Alcuni studiosi della Val Nerina ricordano che nella chiesa era ospitata una notevole statua lignea della Madonna risalente al XIII sec. E assai venerata, che oggi dovrebbe trovarsi nella sacrestia di San Francesco, dove è tornata dopo essere stata trafugata e recuperata insieme  ad altre opere d’arte.  Nell’interno della chiesa è ancor oggi possibile riconoscere, benché ridotti a poco più che larve, alcuni affreschi del XV sec, che intendono ricordare i santi legati ai vari centri di culto di Ruscio e alle storie della Passione di Cristo.

Infatti, a sinistra dell’altare c’è una scena con la Madonna in trono con il Bambino e ai suoi lati S. Lucia, identificabile tramite il calice simbolo del suo martirio -una chiesa di S. Lucia si trova presso l’omonima fonte-, e S. Antonio Abate e non da Padova, con cui è stato confuso nella dedica della chiesa a Ruscio di Sopra: egli porta inequivocabilmente l’abito da eremita e il bastone a forma di T, segni che lo distinguono giacché visse nel deserto del Sinai, divenendo il primo eremita della storia del Cristianesimo. D’altra parte l’identificazione con S. Antonio Abate si adatta meglio alla destinazione di S. Maria a sede di eremiti. Sempre sulla stessa parete, più vicino all’altare, incontriamo un affresco con la "Resurrezione" di Cristo, accompagnato dall’angelo che ne dà l’annuncio, mentre sulla parete opposta alla navata è possibile riconoscere una scena con il "Cristo in pietà" in mezzo ai dolenti, ovvero la Vergine e S. Giovanni.

Per completare il ciclo della Passione di Cristo, la scena della Crocifissione è stata rappresentata sulla parete di fondo del piccolo ambiente dietro l’altare:  le condizioni sono  drammatiche, perché l’intonaco è quasi caduto del tutto, ma la qualità che ancora ne traspare è notevole e punta verso la scuola di un maestro primocinquecentesco umbro, Giovanni di Pietro, detto lo Spagna forse a causa della sua origine, attivo nello spoletino dopo essersi formato alla scuola di Pietro Perugino, il grande maestro di Raffaello. Mi trovo però costretta a chiudere queste note rilevando che, purtroppo, l’interessante chiesetta che tutti noi conosciamo risulta oggi assai alterata nel suo valore monumentale dal notevole interramento, causato dalle piene del Corno e dall’impetuosa discesa di acque piovane dal Trivio, tanto che non resta che auspicare la pronta sistemazione del muretto che la separa dalla strada e che ne costituisce  l’unica difesa, oltre alla liberazione almeno parziale dei muri perimetrali, ormai visibili solo per due terzi della loro altezza originaria.