Una antica tradizione: la Pasquarella

By proruscio

Un giorno delle vacanze di Natale di quest’anno ormai trascorso, un gruppo di ragazzi di Cascia si presentò alla porta di casa invitandomi ad ascoltare alcune canzoni.

Era la prima volta che assistevo a questo tipo di “performance” e l’accompagnatore di quei ragazzi, Don Elio ZOCCHI, Arciprete di Cascia, mi spiegava che stavo ascoltando una Pasquarella, canto augurale natalizio legato ad una antichissima usanza diffusa in tutta la Valnerina e nel Leonessano.

Durante i freddi mesi invernali, infatti, gruppi di ragazzi ed adulti usavano radunarsi per preparare dei canti celebranti i diversi momenti della Natività di Cristo, da diffondere di paese in paese, di casa in casa, durante le feste natalizie. Canti augurali che celebravano l’arrivo dei Magi, la Befana, l’Anno Nuovo, il Natale, e che si concludevano con l’augurio di buone feste e prosperità.
Il termine “PASQUARELLA” prende il nome all’Epifania o prima pasqua.
I canti generalmente nascono come delle semplici laudi sacre, ma man mano si vanno arricchendo di appendici ed immagini profane, bizzarre e goderecce, senza mai cadere nel volgare e si concludono sempre con l’augurio di buone feste e la richiesta di doni o di cibo.

Nelle storie si inseriscono poi delle gustose scene ed immagini di schiettezza tutta contadina, che variano in infinito le storie del Redentore con fantasiose ed a volte anacronistiche ingenuità.
La Natività è sicuramente il tema che più ricorre tra le righe di questi canti e che si riallaccia alla tradizione tutta francescana del presepio.
Tale tradizione, avvalorata dalle numerose chiese e comunità dedicate al santo che si trovano nella nostra area, trova la sua più alta rappresentazione nel grandioso presepio cinquecentesco della cappella omonima della chiesa di san Francesco a Leonessa.

Il canto della PASQUARELLA si sviluppa generalmente in tre momenti: l’annuncio delle grandi solennità natalizie, tra le quali l’Epifania è la più importante; l’augurio di buone feste, e, come ultimo momento, la richiesta esplicita o velata dei Pasquarellanti di doni e cibarie.
Recita una pasquarella: “Oro pertanto non lo vogliamo – ci accontentiamo di quello che c’è. Però’n mocalittu – de bòna vinella – cò ‘n po’ de ciammella – portàtece qua”.

Dice Don Elio Zocchi nella prefazione del suo libro nel quale ha raccolto molte pasquarelle del Leonessano e dalla Valnerina e dal quale queste notizie sono desunte: “…religiosità e folklore, schiettissimo senso dell’ospitalità e povertà antica, lunghissima stagione invernale e voglia di vincere la noia sono le componenti di questa tradizione di menestrelli che va sotto il nome di Pasquarella”.

Registrando, quindi, la viva voce di anziane persone di Cascia, Santa Anatolia, Norcia e Leonessa, Terzone, Vindoli, Sala, riusciamo oggi a ricostruire e conservare un piccolo patrimonio culturale che sicuramente sarebbe finito nella dimenticanza di chi ritiene tale forme di espressione popolare ormai anacronistiche ed inutili.

Non si conoscono pasquarelle tipiche di Monteleone e delle sue frazioni, ma Don Angelo ci dice come al suo arrivo in terra monteleonese cercò di organizzare un gruppo di pasquarellanti che cantarono a Spoleto e perfino al Terminillo.

Oggi tuttavia tante tradizioni sopite nel tempo stanno riprendendo vita (pensiamo alla suggestiva serata del Focone) e la convinzione che i canti delle Pasquarelle non siano solo cose dei tempi andati, ma qualcosa di ancora vivo ed attuale, l’abbiamo avuta proprio da una bambina di Ruscio, Paola Cioccolini, figlia della nostra efficientissima Pina.

Con la spontaneità che contraddistingue i bambini, Paola ha cominciato ad intonare una pasquarella, insegnatale dalla maestra di Poggiodomo, che viene indicata da Don Elio nel suo libro come una delle più antiche.

Detta pasquarella, che ha per titolo “NU SIMO VINUTI”, è riportata qui per intero insieme a due righe di pentagramma per chi volesse sentirsi un nuovo pasquarellante, e ricreare un momento di genuino folklore della nostra terra.

NU SIMU VINUTI

Nu simo vinuti
co’ tutta creanza,
sicunnu l’usanza,
la Pasqua a cantà.

Là ‘drento a ‘na stalla
nascié lu Bambinu,
je manca lo inu,
je manca lo pà.

Se more de friddu,
‘n cià manco ‘n littucciu,
nascié purittucciu,
nascié pé penà.

Ma tello vicino
ce sta San Giuseppe,
reccoje le zeppe
pé faru scallà.

La Madre je canta,
j’ammocca, j’ammanna,
je fa ninna-nanna,
je dà ru coccò.
 

Ri pòri pastori,
chi ‘n può de ricotta,
che abbacchiu e caciotta
je viengu a portà.

E mo li Re Maggi
co’ tutti li fiocchi,
co’ doni e brellocchi
ru viengu a adorà.

Nu pure que cosa
che rempe la panza,
sicunne l’usanza,
vulimo assajà.

Se può ve dispiace
d’aprì la creenza,
d’aprì la dispenza
putimo abbozzà.

Però ‘n mocalittu
de bona vinella,
co’ ‘n può de ciammella
portatece qua.