In questo interessante saggio l’autore svolge un’ampia disamina del fenomeno del brigantaggio che si manifestò in Umbria dal 1400 (termine dell’epopea dei Capitani di Ventura ed inizio del consolidarsi dello Stato della Chiesa) alla fine del secolo scorso, allorquando l’amministrazione del giovane regno d’Italia riuscì capillarmente ad estendere il controllo su tutto il territorio della regione e debellare il fenomeno.
Le parole “bandito” e “brigante”, seppur semanticamente distinte, sono oggi comunemente assimilabili per definizione al “fuorilegge”. Il “bandito”, infatti era quel personaggio che colpito da avviso pubblico (“bando”) veniva allontanato dalla comunità – o volontariamente se ne allontanava – per motivi giudiziari o a seguito della sconfitta della propria fazione. Costui il più delle volte, condannato in contumacia, reietto dalla società, senza alcun diritto politico e civile, era costretto a vivere ai margini della comunità stessa e per pura sopravvivenza o per desiderio di rivincita diventava “brigante”. Da qui l’assimilazione nel tempo dei due termini.
All’inizio del ‘400 il fenomeno prende vigore alimentato soprattutto da alcune situazioni sociali quali le disperate condizioni dei contadini cacciati dalle loro case (saccheggiate o bruciate) che diventano briganti o soldati di ventura per necessità, la posizione di ex avventurieri non più abili a servire nelle compagnie di ventura che si riducono al brigantaggio alimentato da rapine e furti. Inoltre aumenta il numero dei banditi (confinati politici o fuoriusciti) pieni di odio e di rancore che effettuano azioni di saccheggio e dei predoni che imperversano sulle poche vie di comunicazione allora esistenti.
Nel periodo di consolidamento del potere temporale della Chiesa in Umbria (sec. XVI, XVII e XVIII) si vennero a determinare ulteriori cause che fomentarono ancora di più il fenomeno, quali il ruolo dei nobili spodestati dalla Chiesa che mal si adattavano al nuovo ordine sociale ed alla perdita degli antichi privilegi, l’applicazione della tassa sul sale (1539) da parte di Papa Paolo II che diede origine ad una serie di violente reazioni e sanguinose repressioni, il malgoverno ed il pesante fiscalismo pontificio che riducono alla fame il ceto legato alla terra.
Nel periodo post unitario (fine dell’’800) il banditismo umbro ha un’ulteriore recrudescenza le cui cause sono legate all’introduzione della leva obbligatoria – dopo 400 anni – che determina l’insorgere di un considerevole fenomeno di renitenza alla leva stessa, costituendo “humus” favorevole alla ripresa del banditismo, l’eccessiva pressione fiscale sulle classi più deboli ed il riflusso post-unitario, rappresentato da elementi ex garibaldini non integrati nell’esercito regolare ed ex papalini venutisi a trovare nelle condizioni di disoccupati.
Il brigantaggio in Umbria, inoltre, viene favorito anche dall’esistenza di una serie di presupposti storico/geografici, quali il terreno impervio e montuoso, il fitto sottobosco favorevole all’occultamento e la vicinanza a confini di stati limitrofi (Ducato d’Urbino, Regno di Napoli, Granducati di Toscana) verso i quali era facile fuggire in caso di necessità. Tutto ciò rappresentava il substrato ideale per lo sviluppo ed il mantenimento delle attività illegali. Per queste ragioni l’area spoletino-nursina divenne di gran lunga il territorio più importante per lo sviluppo ed il brigantaggio specie nei secoli XVI e XVII essendo una zona isolata dalle principali arterie di comunicazione, carente di strade, fittamente boscosa, inaccessibile ed a volte inospitale. Per queste caratteristiche rappresentò per due secoli una spina nel fianco dell’amministrazione papale ed il governo pontificio sarà più volte costretto ad utilizzare l’esercito per riprendere il controllo del territorio.
Dell’area spoletino- nursina ricordiamo i capibanda Petrone e Piccozzo, operanti a cavallo tra il 1440 ed il 1500, provenienti da rami di famiglie nobili spodestate o che mal si adattavano ai nuovi tempi. L’attività di costoro interessò Monteleone e la Valnerina. Il primo, Petrone di Vallo di Nera, operava nella valle ed è ricordato come uomo fiero, implacabile e spietato. Diviene ben presto il capo della ribellione contro Spoleto, impossessandosi del sellano e conducendovi numerosi scontri con le forze regolari pontificie nella zona di Scheggino, Civitella, Cerreto, Monteleone e Cascia. Arriva perfino ad uccidere a Vallo di Nera il giovane governatore di Spoleto, Alfonso di Cardona ed il suo seguito. Braccato a lungo dalle milizie pontificie e dai “birri di campagna” (sorta di polizia locale, da cui “SBIRRI”), viene eliminato, bruciato vivo in una casa dal capitano spoletino Minervino.
Il secondo, Gerolamo Brancaleoni detto Piccozzo – personaggio ironicamente celebrato nel film “L’armata Brancaleone” – e il genero del venturiero umbro Piersante Cecili detto Saccoccio, che fu per breve tempo signore di Spoleto. Bandito dalla stessa città nel 1505, pone la sua base nel castello di Passignano, nei pressi di Campello del Clitunno, da dove per lungo tempo e per vendetta devasta il Contado. Cacciato dal Clitunno si sposta a Sellano, alleandosi col Petrone e partecipa con questi all’uccisione del Governatore di Sellano. Portatosi poco dopo a Monteleone si disloca successivamente in Val di Narca e quindi a Cascia dove viene respinto. Braccato a lungo dalle Forze Pontificie la sua fortuna entra in declino alla morte del Petrone fino a cadere nell’oblio.
Da “STUDI STORICO-MILITARI 1998”
di Massimo IACOPI