Era una bella mattina di fine giugno, le scuole erano appena terminate da alcuni giorni, ero stato promosso e stavamo giocando a guardie e ladri sull’ampio marciapiede di Via Regina Margherita con i miei coetanei quando mio padre mi chiamò e mi disse. "Mario tieni i soldi e vai a comprare il tabacco da fiuto ERBASANTA per tuo nonno "Garibaldi": da domani andate a Ruscio". Per chi non lo sa il tabacco da fiuto ed il sigaro "TOSCANO” erano molto in voga tra gli uomini di allora. Ogni consumatore teneva la polvere di tabacco in una scatoletta detta appunto tabacchiera, che poteva essere di povero legno, come quella del nonno, o di metallo prezioso o di ceramica artistica quindi di valore. Per questo motivo esisteva un detto "chiacchiere e tabacchiera di legno il Monte (n.d.r. il Monte di Pietà) non prende pegno".
Mai avevo obbedito così prontamente a mio padre e in un attimo arrivai dal tabaccaio all’angolo di Via Nomentana tornando con il cartoccio di ERBASANTA per il nonno.
L’indomani mattina, molto presto, eravamo già in piedi e pronti alla partenza quando arrivò davanti al portone di casa Antonio Peroni con cavallo e carrozza (n.d.r. vedere il numero precedente della "Barrozza"). Era ancora un vetturino perché i taxi non esistevano e solo più tardi diventò un "taxi driver". Caricarono, Antonio e papà, il grosso valigione legato con spaghi ed i vari fagotti contenenti le cose e le cibarie per il viaggio. lo mi arrampicavo sempre a cassetta vicino ad Antonio che frustò il cavallo e la carrozza cominciò ad avanzare sui sampietrini romani portandoci alla stazione Termini.
La stazione Termini era agli occhi di noi bambini, qualche cosa di misterioso, un tempio bello e pauroso, appartenente ad un mondo favoloso pieno di voci e di confusione e fieno acre. Saliti e sistemati sul vagone dopo tanti saluti, il treno si mosse e noi dal finestrino continuavamo a salutare papà ed Antonio che si facevano sempre più lontani. Il viaggio era iniziato. La campagna si snodava sotto i nostri occhi appiccicati al vetro, chiuso perché il fumo, specialmente quando il treno passava sotto le gallerie non ci facesse male agli occhi e non ci sporcasse.
Dopo circa tre ore il treno Roma-Ancona ci lasciò a Terni. Qui la "corriera" non era ancora arrivata e mamma ci portava a mangiare le paste al caffè Pazzaglia al centro di Terni tutt’oggi luogo assai movimentato. Poi arrivava la corriera cioè la S.A.U.R.A., sigla fatale che ci doveva accompagnare per la maggior parte della nostra vita legata a Ruscio. A quel tempo la corriera della S.A.U.R.A. era un vecchio 18 BL FIAT sicuramente un camion residuato bellico della 1^ guerra mondiale adattato al trasporto dei passeggeri cioè ad usi civili. Passata una mezz’oretta tra il vociare e la confusione per caricare le valigie, fagotti ed ogni altra cosa sul tetto della corriera, detto "imperiale", cercavamo di sistemarci nei posti vicino al finestrino. La corriera, sferragliando, affrontava la ripida salita vicino alle Marmore e a Piediluco. Durante il tragitto ad un certo punto mamma ci diceva di guardare le Cascate.
Noi ci sforzavamo di vedere e, scrutando tra gli alberi in lontananza, una nebbia fitta si alzava nel verde della campagna. Arrivati a Piediluco vicino al lago ai piedi della scalinata della chiesa c’era una sosta un po’ più lunga e mi ricordo si cominciava a mangiare le pagnottelle portate da casa e innaffiate dall’acqua fresca della bottiglia riempita alla fontanella. Il viaggio continuava sulla strada bianca e sassosa fino al bivio per Labbro e Morro Reatino.
La bella casa cantoniera al 19° Km era allora abitata, come era abitata la "mola" prima del passo di Leonessa dove si arrivava prima di sera. Sosta più lunga sulla piazza principale, con scambi di saluti e di notizie tra paesani. Nel mentre l’autista provvedeva ad accendere i fari. Non essendoci ancora le batterie elettriche la luce era fornita dal gas catilene (spiegazione: le auto di quei tempi avevano tutte i fari grandi perché dentro alloggiava un’apparecchiatura composta da un contenitore diviso in due parti; la superiore conteneva acqua mentre l’inferiore veniva sempre riempita con carburo che si presentava come dei ciottoli o sassi grigi ed era prodotto a Terni.
Con una vite si regolava la caduta dell’acqua sul carburo che produceva al contatto gas infiammabile detto acetilene; un tubicino lo convogliava nella parte anteriore del faro che veniva acceso fornendo così la luce necessaria per quella velocità e per quel traffico quasi inesistente). Da Leonessa la strada era tutta in discesa e ci portava a casa, a Ruscio. La corriera si fermava dove ora c’è il negozio di Pietro e li c’erano i parenti ad aspettare. Mi ricordo che c’era "Lu Pecchio" che si caricava sulle spalle il valigione di mamma e per tutto il tempo si asciugava continuamente il sudore nella speranza che mamma gli desse una mancia più lauta.
Era ormai notte, sicuramente le otto; eravamo partiti all’alba da Roma ed avevamo viaggiato tutto il giorno. Ormai stanchi del viaggio e contenti cenavamo al lume della lampada a petrolio e poi con la luce del "lumittu" andavamo a letto, ci sprofondavamo sui pagliericci di foglie di granturco, su quattro tavole di legno, ci grattavamo velocemente sui quei lenzuoli ruvidi di canapa profumati di campagna. Domani, volenti o nolenti, ci trovavamo inseriti nella vita di tutti i giorni e come tutti gli altri ragazzi di Ruscio vivevamo la vita dei campi, la cura degli animali, la mietitura, la trebbiatura con la gioia delle feste, dei balli, dei pranzi e delle merende sull’aia.
Stavamo in villeggiatura o eravamo stai scaricati da nonno perché mamma e papà dovevano lavorare a Roma? Ad ottobre, all’inizio dell’anno scolastico, avremmo rifatto lo stesso percorso all’inverso. Comunque l’attività di aiuto contadino durò fino all’età di 14 – 15 anni.
Poi si formò una bella comitiva di ragazzi e ragazze che insieme facevano passeggiate e gite, ballando tutti i pomeriggi al suono di un vecchio grammofono, guardati male dal povero Don Sestilio perché davamo scandalo.