La scelta che noi volontarie monteleonesi del Servizio Civile Nazionale abbiamo fatto all’inizio di questo anno, proponendo come tema di progetto l’Emigrazione dal nostro paese nei primi del ‘900, ci ha portato a vivere in prima persona un’esperienza che si è rivelata nel corso dei mesi insospettabilmente affascinante e coinvolgente sotto diversi aspetti.
Abbiamo quasi inconsapevolmente intrapreso un viaggio a ritroso nel tempo alla ricerca di informazioni sulle vite di ragazzi, più o meno della nostra età, che circa 100 anni fa, al risveglio vedevano le nostre montagne e il fiume Corno, che facevano insieme la legna per festeggiare l’8 dicembre il Focone della Venuta a Piazza del Mercato, come noi faremo tra pochi giorni, che la domenica andavano a Messa nella Chiesa di San Francesco e, magari, prima di andare a pranzo, si fermavano, come noi ora, a chiacchierare in gruppo seduti sul muraglione, con le gambe penzoloni.
Pian piano li abbiamo conosciuti da vicino, abbiamo scoperto quali erano i loro nomi, quale lavoro facevano, chi lasciavano in patria, in che anno si misero in viaggio e quando sbarcarono ad Ellis Island, quanti dollari avevano in tasca all’arrivo, se sapevano leggere e scrivere, quanto pesavano e di che colore avevano gli occhi, da quale amico o parente andavano a stare a Trenton.
Nelle notti passate a cercare i nomi sul sito di Ellis Island, non nascondo di aver provato una certa emozione quando sullo schermo vedevo comparire tra tanti, i cognomi a me da sempre familiari.
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Ma gli interrogativi più grandi e profondi a cui ci ha condotto infine la nostra ricerca per completare il quadro sono: quali pensieri e quali emozioni avessero i monteleonesi emigranti nel giorno in cui dovettero prendere la tragica decisione di lasciare il posto in cui erano nati e cresciuti,e ancora con quale stato d’animo affrontarono un viaggio lunghissimo e per molti aspetti penoso, in che modo riuscirono a superare le difficoltà e a sopportare i sacrifici per costruirsi una nuova vita in terra straniera.
La fortunata occasione che ho avuto di partecipare alla gita organizzata dalla Banda mi ha dato la possibilità di affrontare dopo un secolo lo stesso viaggio che fecero i nostri emigranti, anche se in modi e condizioni totalmente diverse. Vedendo per la prima volta Trenton, il museo di Ellis Island, l’ex fabbrica Roebling, ascoltando i racconti di Bill, mi sono sentita legata empaticamente a quei giovani del secolo scorso con cui condivido l’età, le origini monteleonesi, con alcuni sicuramente anche dei geni e inoltre la voglia e il coraggio,spero, che ebbero loro di credere in un futuro migliore.
Il mio viaggio inizia l’8 ottobre alle 4 di mattina, quando nel concitato entusiasmo generale un folto contingente di Monteleonesi tra musicanti, di cui io faccio parte, e accompagnatori lascia il paese mezzo vuoto per raggiungere la comunità gemella d’oltreoceano. A metà mattino siamo già all’aeroporto di Fiumicino, e pensare che i nostri emigranti impiegavano giorni per raggiungere a piedi, valigia di cartone alla mano, le città portuali più gettonate:Napoli, Genova, Le Havre.
Alle 11 siamo già tutti a bordo del Boeing, l’ansia latente di quelli che tra noi prendono per la prima volta l’aereo emerge dai sorrisi e dalle battutine che nascono qua e là per smorzare la tensione. Le 9 ore di aereo sono esaltanti, ma interminabili e, proprio quando ci si sta facendo l’abitudine a viaggiare sospesi a più di 900km/h, ecco che stiamo per atterrare all’aeroporto di New York.
I nostri amici emigranti impiegavano 15-20 giorni di nave per giungere nella terra dalle mille opportunità, quel mare immenso che vedevano per la prima volta doveva sembrare tanto spaventoso quanto meraviglioso da vicino. L’oceano Atlantico era per loro molto più che un semplice grande mare, rappresentava lo spartiacque tra due vite, quella italiana fin’ora vissuta, nota, che evocava nostalgia, rimpianto, rabbia per il costretto abbandono, e quella futura americana, carica di aspettative, di speranze e di paura perché ignota.
I monteleonesi di allora viaggiavano,come noi, in gruppo (lo si intuisce dai registri di Ellis Island in cui sono elencati in sequenza), probabilmente si sostenevano a vicenda quando si trovavano ammassati negli scompartimenti di terza classe insieme agli animali e alle valige, con poca acqua, viveri scarsi, in condizioni igieniche precarie.
Giunti all’aeroporto di New York veniamo catapultati in un specie di bunker gigante, nulla a che vedere con il luminoso aeroporto romano pieno di negozi.
Ci infiliamo in lunghe file serpiginose di gente di ogni nazionalità cercando di restare in gruppo con un po’ di difficoltà, mentre dei poliziotti ci stanno addosso per indicarci con tono autoritario cosa dobbiamo fare. Mi guardo intorno e mi sembra di scorgere i volti di quei monteleonesi di un tempo spaesati e impauriti mentre venivano passati in rassegna dagli ufficiali americani.
Dopo l’11/09/2001 comprensibilmente i controlli negli aeroporti USA sono diventati rigidissimi, questo mi è da subito evidente quando un poliziotto donna mi urla contro in un inglese talmente duro da sembrare tedesco di mettere via subito la mia macchina fotografica, minacciandone il sequestro qualora avessi fatto altre foto e mi invita con tono minaccioso a cancellare quelle scattate.
Mi controlla mentre eseguo e mi scuso. Arriviamo in albergo nel cuore di New York stanchissimi, ma non abbastanza da rinunciare all’esplorazione notturna della Grande Mela. Forse anche i nostri emigranti come me, restarono sorpresi dalle dimensioni pachidermiche di ogni cosa cosa in America: le strade a sei corsie, i grattaceli a 100 piani, le enormi pianure verdeggianti, i cimiteri alla periferia di New York:immensi prati ricoperti di croci bianche in file ordinate, la linea dell’orizzonte piatta e infinita; qualcosa di inimmaginabile per chi nasce in un piccolo paesino rurale del centro Italia recintato dai monti.
Restiamo stupefatti dalla New York di notte: Manatthan illuminata a giorno dalle insegne a neon e dai cartelli pubblicitari lampeggianti sembra un meraviglioso parcogiochi e al posto della ruota panoramica come attrazione principale troviamo l’Empire State Building. Il 9/10 facciamo un giro guidato con l’autobus per le streets e le avenues della Grande Mela, scorgiamo la Little Italy, Chinatown, i grandi parchi della città con gli scoiattoli più socievoli del mondo e vediamo attraverso la vetrata di un grande centro commerciale popolato di baby sitter di colore e bambini bianchi, Ground Zero che sembra solo un enorme comunissimo cantiere al centro della città, difficilmente riconducibile alle immagini apocalittiche diffuse quel giorno dai TG.
Il giro in città termina con la visita della Banda in divisa alla Biga,conservata nel Metropolitan Museum, dove troviamo ad accoglierci calorosamente Bill Giovanetti e Bob Vannozzi che saranno i nostri ciceroni per tutta la permanenza negli USA.
Il destino ha voluto che anche la Biga fosse “emigrata” tra gli emigrati, infatti giunse in America all’inizio del trentennio dell’esodo monteleonese, precisamente nel 1903. Al centro della galleria d’Arte Etrusca troviamo il nostro antico carro ai cui piedi una piccola targa informa i visitatori:”Chariot found in Monteleone di Spoleto, Italy”. Scattiamo tante foto da far agitare la sicurezza, ma il nostro incontro è memorabile è come ritrovare, abbracciare dopo tanto tempo una vecchia compaesana, ormai naturalizzata cittadina americana e immortalare il momento è d’obbligo.
Nel tardo pomeriggio arriviamo finalmente ad Hamilton, dov’è il nostro albergo e dove risiedono i discendenti della comunità monteleonese di Trenton. Ad accoglierci troviamo la vice console Gilda Baldassarri, che sarà il nostro punto di riferimento fino alla partenza.
Prima tappa:cimitero di Hamilton. Ognuno di noi con l’aiuto di Bill va alla ricerca dei parenti emigrati sentiti spesso nominare dai nonni e bisnonni italiani. E’ un incontro di grande intensità: promesse e desideri di ritrovarsi fatte un tempo ad amici,figli, genitori, sorelle, fratelli e purtroppo mai mantenute vengono sciolte oggi, in questo momento a distanza di cinque generazioni.
Le nostre preghiere su quelle tombe sono l’abbraccio tanto sperato e spesso mai avvenuto in vita tra i nostri nonni e i loro familiari emigrati in America.
La serata si conclude con la prima cena tutti insieme in una pizzeria del luogo. Banda, accompagnatori, rappresentanti dell’Associazione Valnerina-Trenton e soprattutto i discendenti dei Vannozzi, dei Giovanetti, degli Allegretti… insomma dei monteleonesi di Trenton.
Il 10/10 sveglia all’alba, vengono a prenderci Gilda e Bill, siamo diretti a Trenton per la prima performance bandistica. Gilda ci parla lungo il viaggio in autobus degli Stati uniti, della Costituzione americana, del presidente Thomas Jefferson, della zona residenziale di Hamilton, dove vivono oggi i discendenti degli emigrati a Trenton, ci parla del riscatto degli italiani che lavorando sodo nel corso delle generazioni dal duro lavoro in fabbrica sono passati a ricoprire cariche importanti in tutti i campi, in particolare quello giudiziario e politico. Infine ci racconta con commozione di suo padre che emigrato in America all’età di 8 anni lavorava già da piccolo nelle miniere.
Arrivati ad Hamilton ci inseriamo nell’etereogenea parata composta da sfarzose bande americane provviste di majorettes, dai veterani di guerra italo- americani, dai rappresentanti dell’associazione “Amici della lingua Italiana”, da nostalgici della vecchia patria che sfoggiano come cimeli introvabili Vespe 50 e Ferrari. Sulle note de “La vita è bella” iniziamo a marciare capeggiati da Bill, Bob, Gilda e il nostro Padre Cassian, ai lati delle strade la gente sventola le 2 bandierine: italiana e americana a tempo di musica.
Anche il giorno dopo sveglia di buon ora, stavolta siamo diretti a Trenton per partecipare alla messa nella Chiesa di San Gioacchino, costruita dai monteleonesi.
Ad accoglierci c’è Padre Jeffery, che avevo incontrato per la prima volta in Italia con la dott. Anna Rita Bucchi e le ragazze del SCN.
Prima di entrare facciamo un giro per il quartiere, ormai come ci ha spiegato Bill gli italiani sono stati totalmente rimpiazzati dagli Ispanici, il processo è iniziato circa 50 anni fa quando i primi trasferendosi nella zona residenziale di Hamilton hanno lasciato posto ai nuovi emigrati d’America. Bill racconta questo avvicendarsi di popolazioni straniere negli USA con tale naturalezza che gli chiedo quali siano i veri Americani d’America, lui con un sorriso bonario mi fa notare che la domanda è sciocca e risponde che se esistono sono gli Indiani delle riserve, gli Stati Uniti mi dice sono da sempre un paese di emigrati da altre terre.
L’unico residuato italianeggiante della zona che ci salta agli occhi è un vecchio, polveroso bar di due anziani italo-americani, li prendiamo un caffè amarissimo addolcito però dalla simpatia dei due che ci parlano farfugliando un vecchio dialetto calabrese. Le case in mattoni e legno che vediamo in giro abitate ora dagli Ispanici sono ancora quelle del quartiere italiano, probabilmente costruite dai Monteleonesi, i nomi delle vie: Clinton Av., Chestnut Av., Roebling Av., Division St., suonano familiari:sono proprio quelli che abbiamo letto decine di volte sugli ship manifests di Ellis Island, in cui era indicato l’indirizzo dei parenti o amici da cui l’emigrante andava a stare.
Nel pomeriggio ci aspetta una sontuosa e lunghissima parata ad Ocean County sull’Oceano. E’ una bellissima giornata, gli ottoni delle immense bande americane risplendono alla luce del sole, ci sono gruppi folkloristici di ogni genere e una grande folla che ci saluta ai lati delle strade, la melodia delle nostre musiche italiane si inserisce tra i ritmi veloci dei gruppi musicali americani.
Dopo aver visto l’Oceano per la prima volta e aver constatato che anche le conchiglie sono giganti in America, ci prepariamo per la cena. L’accoglienza è squisita, le signore di Trenton hanno preparato la sala e il cibo con le loro mani. Seduti intorno allo stesso tavolo monteleonesi d’Italia e monteleonesi d’America, si raccontano e ricuciono la loro metà di storia con l’altra. Al nostro tavolo si siede un dinamico signore: Anthony Vannozzi che cerca tra noi chi porta il suo cognome.
Gli presentiamo subito i suoi presunti relatives monteleonesi, ascolta entusiasta la storia del ritrovamento della Biga a Colle del Capitano e ci racconta in cambio della “torta paradiso”che sua nonna Ann Vannozzi prepara ancora oggi e di cui custodisce gelosamente la ricetta italiana. Anthony l’ha portata per l’occasione speciale e ce ne fa assaggiare subito un pezzo. La serata si anima durante il concertino che ci offre un piccolo gruppo di musicanti estratto dalla banda, tra cui figura il maestro, alla fine tutti sono in piedi a ballare “when the saints go marching in”.
Il giorno del Columbus Day prevede per noi la partecipazione alla Messa solenne che viene celebrata sia in italiano che in inglese nella bellissima Chiesa dell’Immacolata Concezione, fatta costruire da Padre Pietro Iachetti. Durante il tragitto passiamo davanti l’ex fabbrica di funi d’acciaio per ponti sospesi Roebling. Tutti i monteleonesi passarono di lì, alla Roebling firmarono il primo contratto di lavoro americano che all’inizio era sempre di soli 30 giorni, Gilda dichiara con fierezza che il ponte di Brooklin fu costruito dagli Italiani. All’uscita dalla Messa, durante l’esibizione della Banda, anziani signori e signore si avvicinano timidamente e ci chiedono il nome: cercano i discendenti delle loro famiglie italiane.
Davanti alla Chiesa nascono abbracci e scendono lacrime di commozione, sullo sfondo le note di “O sole mio”.
Il sontuoso pranzo del Giorno del Columbus Day ha luogo alla Baldassary Regency ed è organizzato dall’ancora viva e attiva, a quasi 100 anni dalla fondazione, Società Monteleonese di Trenton. Mentre si fanno i ringraziamenti ufficiali e si scambiano i regali, la Banda si esibisce nell’ultimo concerto.
Tornati in albergo mi aspetta una sorpresa, mentre osservo affascinata Bill che ci mostra la sua preziosa raccolta di foto, documenti originali, alberi genealogici dei monteleonesi di Trenton, gli chiedo se sa qualcosa di una certa Maria Stecchiotti, antenata di mia madre, lui d’improvviso si gira e con notevoli esclamazioni nel suo americano mi indica una vecchietta 95enne con degli occhi vispi colore del cielo. Mi dice di essere la nuora di Maria Stecchiotti, in quanto moglie di Peter , l’ultimo e unico figlio maschio di Maria e Benedetto Pierleonardi.
Mi abbraccia forte, ci facciamo fare una foto insieme per ricordo,la saluto con affetto dopo poche ore mi manda da Bill una foto di Maria e della famiglia. Verso le 20 si parte di nuovo per cenare nella pizzeria dei De Lorenzo’s aperta di sera apposta per noi. La serata d’addio è indimenticabile, si conclude con la musica di un improvvisato quartetto jazz che da il via a un simpatico“trenino” italo- americano.
La mattinata dell’ultimo giorno con la visita al Museo di Ellis Island è per me la più suggestiva e toccante di tutte. All’ingresso vediamo l’antica stazione attigua al porto con la pensilina stile ‘800 e i vecchi binari, i nostri emigranti monteleonesi erano destinati ad uno dei primi:quello che mostra il cartello con scritta la destinazione: New Jersey. Approdiamo all’Isola di Ellis dopo 10 minuti di traghetto, all’ingresso vediamo la grande sala in cui avveniva lo smistamento, oggi riempita da turisti e scolaresche che si affollano davanti all’istogramma 3D delle popolazioni emigrate in america nel secolo scorso o davanti alla bandiera americana con i volti degli emigrati.
Era qui che avveniva la registrazione dettagliatissima dell’emigrante, si chiedeva perfino se era già stato in America, quanti soldi aveva con sé, se si fosse pagato il viaggio da solo e, se no, chi per lui lo avesse fatto. I monteleonesi devono aver atteso per ore in questa specie di limbo pregando, pensando alla vecchia patria, cantando o magari socializzando con altri emigrati. Ci fanno entrare in angusti corridoi tappezzati di piastrelle bianche, ai lati vi sono vari ingressi in successione, attraverso il primo si accedeva alla visita medica, se il soggetto era in buona salute passava al secondo step: la “legal inspection”, altrimenti subiva ulteriori visite specialistiche e a volte poteva anche essere reimbarcato o messo in quarantena. Una parte della visita medica consisteva nella valutazione dello stato di salute mentale, si utilizzavano disegni e puzzles; probabilmente era il momento più difficile della visita data la difficoltà di comunicazione in lingue diverse.
Superata l’ispezione legale, veniva già in fase di registrazione chiesto al soggetto se fosse anarchico e poligamo, l’emigrante era finalmente autorizzato a mettere piede sul suolo americano.
Usciamo dal Museo, tornando verso New York con il traghetto, vediamo imponente la Statua della Libertà che con la fiaccola alzata un tempo diede il benvenuto ai nostri monteleonesi e oggi a noi da l’arrivederci, infatti è l’ultima immagine degli Stati Uniti prima di partire per l’aeroporto.
Di nuovo sull’aereo, New York dall’alto è un tappeto di luci appoggiato sul mare, ci attendono altre 9 ore di volo notturno che stavolta però passano velocemente visto che ancora ci scorrono addosso le sensazioni provate in questi 7 giorni.
Penso ai miei emigrati, la loro “vacanza” nel Nuovo Mondo iniziata un secolo fa è durata una vita intera. Hanno avuto il coraggio di lasciare la loro patria per inseguire il sogno che ogni uomo ha diritto di avere: quello di una vita felice e dignitosa. Tuttavia il legame che unisce ogni persona alla propria terra d’origine è profondo e tenace, resiste al tempo e attraversa le generazioni grazie ai ricordi che i padri lasciano ai figli e i nonni ai nipoti. Ed è questo legame che ha portato sei ragazze monteleonesi di oggi a rispolverare vite di monteleonesi di un tempo e a sentirsi loro tanto vicine.